domenica 5 gennaio 2020

Dolce Australia


Le fiamme divamparono, ogni traccia di verde era sparita. Scintille brillarono nei loro occhi, quando le lacrime disperate diventarono il fumo che avvolgeva ogni pianta, ogni pietra, ogni vita. L’uomo pallido si avvicinò avvolto dal suo mantello nero, la falce stretta in una mano, l’altra libera con le dita scheletriche in mostra. Il suo sorriso infuse una pace nuova, mentre occhi curiosi osservavano.
«Non temermi, piccola creatura. Non sarai sola».
Il koala si avvicinò barcollando. Provò a parlare, ma gli mancava il fiato. Respirare era faticoso. L’aria intorno era nera e incandescente.
L’uomo pallido gli offrì il braccio libero. «Non parlare, non ce n’è bisogno. Vieni con me, solo questo».
Il koala azzardò un passo nella sua direzione, quando un’esplosione lo fece sussultare. Il fuoco si era accorto che qualcosa non andava. I suoi occhi rossi incenerirono con lo sguardo il nuovo arrivato. «Cosa stai facendo?» tuonò.
L’uomo pallido sostenne lo sguardo. «Quello che stai facendo anche tu».
«Allora sei di troppo» ribatté il fuoco. «Torna a mietere uomini e donne, lontano dal mio territorio».
«Gli uomini e le donne non hanno più bisogno di me, da parecchio ormai» sospirò, lanciando un’occhiata al koala che assisteva al dialogo tra i due tremando e respirando faticosamente. «Ma si sono spinti troppo oltre».
«Stai forse insinuando che io dipendo da loro?» chiese il fuoco, stizzito. «Dagli umani?»
«Parli proprio come loro» commentò l’uomo pallido; dopodiché si rivolse all’animale. «Vieni con me» gli ripeté.
Il koala si guardò intorno. «Non voglio allontanarmi dalla mia famiglia» riuscì a rispondere, mentre il fuoco s’ingrossava di furia ed era pronto a divampare su di loro.
«La tua famiglia e i tuoi amici ti stanno aspettando». Gli offrì ancora una volta la mano con cui non stava stringendo la falce. «Lontano da questo disastro».
Il fuoco, cieco di rabbia, si lanciò su di loro bruciando e soffocando tutto quello che toccava; ma il koala aveva già ritrovato la strada di casa, lì dove le fiamme non bruciavano e l’aria non sarebbe mai venuta a mancare.

PIETRO DELL'OGLIO

mercoledì 11 settembre 2019

Le voci della foresta


Un giorno mi dicesti di non amarmi, perché amandomi avresti rotto quel sottile velo che separa le cose belle da quelle brutte. Io ti risposi con un sorriso, senza aprire la bocca, niente di niente. Oggi vorrei averlo fatto, vorrei guardare il tuo viso per l’ultima volta e rassicurarti che no, non si rompe niente, ti amo e posso dirtelo ancora e ancora, finché non ti stancherai di me, finché non mi stancherò di te. Succede, a gente come noi, ma tu non volevi che finisse e quindi non hai mai fatto iniziare niente. Non ho insistito e ora lo rimpiango, ora che non potrà mai più cominciare.
Quando siamo arrivati su questo pianeta magnifico – noto come Agàpis – con gli alberi che ripetono incessantemente frasi nelle più svariate lingue dell’universo, con le radici che crescono verso l’alto e con le foglie grosse, tozze, che ricordano vagamente dei pomodori, questo pianeta con le praterie che sono distese infinite di lunghi steli d’erba dalla consistenza dell’acqua e mari che altro non sono se non immensi pozzi di polvere colorata che si muove, libra, incanta, in questo pianeta, per la prima volta, ci siamo sentiti a casa. Perché siamo due studiosi, io e te, e mentre tu sei andata alla ricerca delle più bizzarre forme di fauna per studiarne la biologia, il mio interesse principale era quello di provare a capire la lingua e il modo di esprimere il linguaggio degli agàpestri, il popolo che abita questo pianeta.
Giorno dopo giorno mi hai parlato di quelle specie così simili alle volpi del nostro pianeta, ma con il pelo azzurro, con la capacità di saltare volteggiando nell’aria, lasciandosi dietro una scia simile alla schiuma del mare che s’infrange sugli scogli; mi hai raccontato di canidi con sei zampe, privi di denti, e con una folta criniera arancione, creature talmente buffe che non siamo riusciti a smettere di ridere per tutto il resto della serata; mi hai mostrato gli ologrammi di enormi bestie dall’aspetto celestiale, alti più di due metri, impressionanti ma al contempo idioti come il più stupido dei koala.
Ogni sera sei tornata a casa con qualche informazione in più, pezzetto dopo pezzetto hai iniziato a lavorare sul puzzle di questo nuovo ecosistema. Sono sempre stato orgoglioso, di te, lo sai bene. Posso dirtelo adesso, posso essere sincero fino in fondo. Ero contento dei tuoi progressi, ma t’invidiavo, perché io non riuscivo a concludere nulla. Per giorni, mesi… anni, non sono riuscito a comprendere la lingua degli agàpestri.
Il loro modo di articolare le parole e il suono che emettono quelle labbra grigie è del tutto identico al nostro. All’inizio non riuscivo, però, ad afferrare le parole, le varie sequenze di suoni non mi erano chiare, e per un momento ho avuto la strana sensazione che lo facessero apposta, che non volessero che qualcuno come me capisse cosa si dicessero; ma io ero determinato a comprendere i loro discorsi più di ogni altra cosa e hanno afferrato la mia determinazione perché, a un certo punto, ho capito.
È esattamente come avevo pensato. Se loro vogliono escludere dai loro discorsi qualcuno che non è un agàpestre, possono farlo anche solo volendo. E lo fanno per una semplice ragione. La loro lingua, per chiunque altro che non sia un agàpestre, funziona come un cancro. Me l’hanno detto loro, nella loro lingua. Gli alberi, hanno aggiunto, comprendono tutte le lingue dell’universo, e ripetono ciò che gli si dice. Quando io e te siamo arrivati su questo pianeta, la prima cosa che abbiamo notato è stata quella foresta in cui ci è sembrato che gli alberi dicessero cose incomprensibili. Si tratta di messaggi delle popolazioni che sono giunte sin qui: «non parlate con gli agàpestri», dicono le voci degli alberi, «non provateci nemmeno». È in questo, però, ho deciso di distinguermi. Ho completato questa registrazione perché tu possa trasmetterla, ma c’è qualcosa per te e solo per te, tra le voci della foresta.

Mi dispiace,
Max

*

Greta ascoltò la registrazione senza respirare. È uno scherzo, si disse. È un dannatissimo scherzo. Per cui posò con finta calma il registratore sul tavolino del suo studio, nella nave. Tornerà, si ripeteva. Voleva convincersi che fosse davvero così. Non ha senso, non ha proprio alcun senso, come può una lingua rivelarsi mortale?
Non può, per davvero.
Si catapultò fuori dalla nave e corse senza mai fermarsi verso la foresta. Fu accolta dalle centinaia, se non migliaia di sussurri e mormorii provenienti da chissà dove all’interno di quegli alberi così strani che, in quel momento, le parvero raccapriccianti.
È un cimitero? È un diavolo di stramaledetto cimitero?
Tra le fredde, distanti, voci appartenute a linguisti provenienti da tutti gli angoli dell’universo, l’unica che la fece sussultare proveniva da più di un albero. Al centro esatto c’era il corpo di Max privo di sensi.
«Non ti preoccupare» sussurrò un albero, con la dolcezza della sua voce. «Non si rompe niente» continuò l’albero alle sue spalle. «Ti amo e posso dirtelo ancora e ancora». E poi: «finché non ti stancherai di me, finché non mi stancherò di te».   
Tutta la foresta si zittì per pochi istanti, e quando Greta scivolò in lacrime tra le braccia dell’amato, gli alberi piansero insieme a lei.

Pietro dell'Oglio

martedì 6 agosto 2019

Pensieri di una persona qualunque

Sono una persona qualunque, vivo in un paese qualunque. Sono fortunato a essere nato da questa parte del mondo, dicono: non ci sono guerre e tutto va benissimo. Non sono ricco, ma i miei genitori possono permettersi di pagarmi l’università. Sono appena uscito dal dipartimento, ho sostenuto un esame molto impegnativo. Il professore era bravo, mi ha spronato a fare sempre meglio. Non mi ha dato il massimo ma sono contento così. 
Fa caldo, troppo. Al sole l’aria è rovente e all’ombra tira una brezza calda e puzzolente; ma io sono allegro, sento di poter sopportare qualsiasi cosa e vincere tutto. Prendo il telefono e mando un messaggio alla mia ragazza: «Andato! Tutto bene, stasera ci vediamo!»
Chiudo il telefono e continuo a camminare verso casa. Ho la maglietta tutta bagnata, non vedo l’ora di farmi una doccia fredda. Riprendo il telefono per controllare se ci sono risposte, poi mi ricordo. Chiamo mia madre e le dico che ho superato l’esame, sto per tornare a casa.
Sto attraversando la strada per poi imboccare la via che mi porterà a casa, quando all’improvviso tutto si ribalta. Sento un rumore sordo e un dolore che non avevo mai provato. Mi sento spintonato, ma non riesco ancora a capire cosa sta succedendo. Sono disteso sull’asfalto e un uomo sta scendendo da una macchina. Sta venendo verso di me, gridando aiuto, chiedendo soccorso. Lo vedo distrattamente, e ancor più distrattamente sento un rivolo caldo sotto di me.
La vista mi si appanna. Voglio chiedere all’uomo che mi sta accanto di dire alla mia ragazza che potrei fare un po’ di ritardo, stasera. Avvisa anche i miei genitori. Ho bisogno che qualcuno mi accompagni a casa, da solo non ce la faccio.
A un tratto non fa più caldo. La doccia non mi serve più: sento freddo. Forse stasera non ci sarò. Diteglielo, ve ne prego. Non riesco più a parlare.
Sono uno qualunque, vivo in un paese qualunque. Sono fortunato a essere nato da questa parte del mondo, dicono; ma così, come se niente fosse, dimenticato, anonimo, le mie ambizioni si sono rotte, i sogni sono caduti e non posso più raggiungerli. Non ho fatto niente, non ho lasciato nient’altro di me. Presto sparirà anche il ricordo.


Pietro dell'Oglio

mercoledì 10 aprile 2019

Il fiume delle anime incastrate


Era una donna di media statura. Indossava due orecchini che cadevano in una lunga catenina d’oro fin sotto le spalle e terminavano in due sfere rosse. Tintinnarono sul quel corpo magro mentre il silenzio della notte era interrotto dal rumore dei suoi passi. Si arrestò a metà del ponte Solferino, come se si fosse ricordata qualcosa di molto importante. Osservò la superficie scura del fiume in direzione delle montagne. Chiuse gli occhi e respirò l’aria fetida che proveniva da sotto.
Un uomo sulla cinquantina, in completo elegante e con una tracolla su una spalla, stava passando di lì proprio in quel momento. Vide la donna e una strana sensazione lo costrinse ad affrettare il passo. Non sapeva bene perché, ma temeva che si girasse e gli rivolgesse la parola.
«Non essere sconsiderato» disse la donna, senza voltarsi.
Un’auto sfrecciò a tutta velocità e l’uomo la osservò correre, augurandosi che non si schiantasse contro niente e nessuno; quindi attraversò la strada e si avvicinò alla donna.
«Non volevo offenderla, signora» disse. «Ho solo paura».
«Non sei l’unico. Sono in molti a temere. Sono in molti a vivere male per questo».
L’uomo ridacchiò nervoso. «Mi piace il modo in cui vivo, il lavoro che faccio».
«Non c’è alcun dubbio a riguardo». La donna finalmente si volse a guardarlo. Occhi rossi dalle iridi sottilissime luccicavano nella notte densa. Un tanfo di putrefazione aleggiò su entrambe le figure per qualche istante; poi la donna sorrise in un gesto rassicurante. «Quel che dirò non è dubitare ciò che hai vissuto».
«E che cos’è, allora?»
«Tua moglie? L’ami?»
L’uomo sbatté le palpebre più e più volte. «Non è questo dubitare?»
La donna fece cenno di no con la testa, e i lunghi orecchini ondeggiarono e tintinnarono emettendo scintille. «Domando risposte, non dubito di te».
«Sì» disse l’uomo in un sospiro. «L’amo, ma l’ho amata di più tanti anni fa».
«Il fuoco si estingue, se prima o dopo poco importa». Volse la testa ancora una volta in direzione del fiume e scrutò a fondo le sue acque.
L’uomo, invece, riprese a fissare la strada da cui era venuto, sconsolato. «L’amo ancora, nonostante tutto. Sono forse uno stolto?»
«Sì».
Dall’altro lato del ponte vide l’immagine di se stesso, poco prima di aver attraversato la strada per raggiungere la donna dagli occhi rosso fuoco. Mentre lo stava facendo, una macchina era sfrecciata a una velocità sostenuta e lo aveva investito in pieno. Era risuonato un crack distorto dal rombo del motore che non aveva accennato a spegnersi. La macchina aveva proseguito la sua corsa senza rallentare.
La donna non cambiò direzione dello sguardo «Hai accettato la tua sorte?»
«Forse».
«Conosci il mio nome?»
«Morte, sei la mia Morte».
«La Morte non è Speranza. La morte non dubita».
L’uomo sospirò. «Sono stato investito da quell’auto mentre attraversavo la strada. Proprio qui, sul ponte Solferino. Sotto il cielo di Pisa, pochi metri sopra l’Arno».
«L’Arno» gli fece eco la donna. «È un fiume di anime incastrate». E aggiunse: «Come la tua».
L’uomo le si rivolse sperando in un nuovo incrocio di sguardi. «La mia anima è incastrata?»
Ancora un tanfo di putrefazione aleggiò intorno a loro. Questa volta assunse la forma di braccia tentacolari che avvolsero l’uomo con delicatezza.
«L’anima non è nient’altro che te stesso» seguitò la donna. «Io sono qualcosa che ne è al di fuori. Siete creature molto strane. Tra di voi dite di essere egoisti, malvagi, con un cuore di pietra. Non sai quante anime come te sono incastrate nel fiume».
L’uomo provò invano a fare resistenza, ma le braccia tentacolari – umide, dense e puzzolenti – non allentarono la presa. «Ti prego, dammi un’altra possibilità» piagnucolò. «Solo un’altra».
Lei si avvicinò e gli accarezzò una guancia. «Non ti è concessa» disse, e il suo tono parve rompersi dal dispiacere. L’uomo fu trascinato sotto la superficie delle acque dell’Arno, in quel fiume delle anime incastrate, e fu incastrato lui stesso per l’eternità. È una pena che s’è scelto, ragionò la donna, e il suo unico peccato è stato quello di amare incondizionatamente, e a senso unico, la sua donna. È incastrato dalla consapevolezza che anche sua moglie è morta in quella notte scura. Lui in solitudine, investito da un’auto. Lei insieme all’amante che s’era portata in macchina, ubriaca, in un incidente d’auto, dopo aver privato il marito della vita. I tre s’erano incastrati, e da quel momento e per l’eternità avrebbero vissuto la morte nelle acque del fiume senza mai poter risalire in superficie, perennemente privati del fiato. L’istinto avrebbe voluto portarli verso l’alto, in cerca d’ossigeno, e la donna dagli occhi rossi e i lunghi orecchini a catenella non glielo avrebbe mai permesso. Perché s’erano incastrati vicendevolmente. Lei e il suo amante, figure spregevoli, erano state punite per la loro cattiveria dettata dall’amore; lui, invece, uomo buono, onesto, sempre gentile, era stato punito ingiustamente perché anche se era a conoscenza di essere incastrato con la moglie, vi era rimasto con consapevolezza. Contro ogni logica, fuori da ogni dubbio, con una forza tale da far vacillare la vita e la morte sin dalle loro fondamenta, amava quella donna spregevole che era stata sua moglie. L’amava senza nessuna condizione e l’avrebbe amata per tutta l’eternità, lì, nel fiume delle anime incastrate, incastrato insieme lei.

PIETRO DELL'OGLIO

mercoledì 5 dicembre 2018

Il diavolo di Angelica



I



Angelica è una ragazza come tante. Chi l’ha conosciuta sa bene che con lei non bisogna indossare alcuna maschera. Non si offende per una battuta particolarmente pungente, né manifesta comportamenti schizzinosi se per caso a qualcuno scappa qualche volgarità. È un po’ un maschiaccio, in realtà, e di volgarità ne dice lei stessa, però poi ride, vibrando note cristalline del suo apparato vocalico. Angelica è una ragazza ribelle ed è impossibile descriverla usando parole diverse. Le piace cantare ed è molto brava in questo. Canta soprattutto pop latino e rap. Quest’ultimo l’appassiona particolarmente, così come ama leggere, scrivere (e cantare!) le rime, che possono far parte di canzoni o anche di vere e proprie poesie. Le piacciono le lettere, dunque, ma senza la prosa.
Ho detto che Angelica canta molto bene, ed è vero, ma balla anche meglio! Se tu e lei siete abbastanza in confidenza, basta tirare fuori uno smartphone, far partire un flamenco ed ecco che ti porta con sé nel suo mondo fatto di onde e colori.
E a proposito di colori, se li adora! Indossa ogni giorno una felpa o una maglietta di un colore differente. Sfortunatamente, la sua felpa preferita è di una bruttissima sfumatura di rosa pastello. Non dovrei giudicare, ma di tutti i bellissimi colori di cui si veste, be’, quello è di certo il peggiore. Ciononostante, a lei piace, e io non posso fare a meno di apprezzare la sua anima così variegata in un mondo che ha un disperato bisogno di colore.
Anche i suoi capelli sono colorati. Al momento li porta corti e arancioni. La sua testa somiglia a un enorme mandarino. Sono consapevole che si tratta di una similitudine un po’ povera, ma è esattamente la prima cosa che mi viene in mente se la osservo. È un mandarino.
I genitori di Angelica non sono particolarmente contenti della loro bambina. Quando ha compiuto diciannove anni, affermano, ha iniziato a manifestare comportamenti immaturi e poco adeguati all’educazione che le è stata impartita. Adesso che ha ventitré anni, i suoi genitori non sembrano volerle bene più come una volta.
«Non è più la nostra cara bambina...» dice la mamma di Angelica, un donnone grande quanto un armadio e più duro del cemento armato. «Quei suoi modi di fare, quelle sue amicizie…»
Suo marito riempie di tabacco la pipa, mentre annuisce poco convinto a qualcosa che non ha neanche udito distintamente. «Già, le amicizie».
«Quei ragazzi l’hanno allontanata da noi, l’hanno allontanata dal Signore!».
Si trovano entrambi in cucina. Lei sta asciugando convulsamente un piatto mentre parla. Dopo aver cenato, Angelica è volata in camera sua. Ha litigato per l’ennesima volta con entrambi.
«Il Signore, sì» conviene l’uomo, intento a spolverare con un dito il bordo della pipa.
La donna, invece, continua ad asciugare lo stesso piatto, con sempre maggior disinvoltura. «Dobbiamo fare qualcosa. Sono anni che prego che il Signore la faccia tornare quella di un tempo. Dietro Suo consiglio, credo che la nostra piccola bambina abbia intrapreso la strada sbagliata da quando, quattro anni fa, quella sua amica, quella ragazza…»
«La strada sbagliata, sì» ripete l’uomo.
La donna smette di asciugare il piatto e lo poggia con composta violenza nel lavandino. «Ma Antonio! Mi stai ascoltando o no?»
Colto alla sprovvista, Antonio si rizza sulla sedia e annuisce con vigore. «Ma certo, certo che sì, cara!»
La donna gli manda un’occhiata di fuoco, sbuffa e poi ritorna alle sue faccende.
Nel frattempo, Angelica, sdraiata supina sul suo letto, ha udito soltanto l’ultimo richiamo all’attenzione di sua madre nei confronti di suo padre. Sa che stanno parlando di lei. O meglio, sa che sua madre si sta lamentando del suo atteggiamento nei confronti della Santa Chiesa e di tutte quelle sciocchezze.
Ah! Per mio conto. Voglio scusarmi se tu che stai leggendo credi in Dio o pratichi qualche tipo di religione. Non è mia intenzione offendere il credo altrui; però, la mia opinione personalissima è che anche se ritieni che la tua verità sia l’unica vera, ciò non toglie che il tuo prossimo possa non pensarla esattamente come te.
Non dogmatizzate qualsiasi cosa!
E se ho usato (e userò, oh cielo se lo farò) toni un po’ coloriti a riguardo, be’, non posso farci molto. È questo che sono.
Ma ritorniamo alla nostra dolce, meravigliosa e in questo momento un po’ malinconica fanciulla. Angelica sta fissando il soffitto della sua camera, immaginando che sia un cielo stellato. Allunga un braccio in direzione dello stesso nel tentativo di afferrare quante più stelle possibile. Ogni singola stella è qualcosa che sua madre detesta e che suo padre ignora. Tutti quegli astri, però, sono zone luminose sul suo volto, all’interno della sua testa – la sua mente – e nel profondo del suo cuore – l’amore con cui ha stretto un patto di eternità.
Si gira su un fianco e controlla che ora è sull’orologio poggiato sul suo comodino: è un orribile marchingegno a forma di unicorno che galoppa su di un arcobaleno brillantinato. È qualcosa di sdolcinato da far salire il vomito, lei stessa la pensa quasi come me; però è anche il ricordo più concreto di una persona a lei molto cara.
Sono le dieci di sera.
Si alza di scatto, s’infila un giaccone e una sciarpa e varca la soglia della sua camera.
Mentre esce di casa s’infila le cuffie nelle orecchie per evitare di sentire i rimproveri di sua madre. Una volta fuori, inala a pieni polmoni l’aria gelida di dicembre.
Angelica vive in un comune pugliese molto evocativo. Trani è una città che si trova qualche chilometro a nord di Bari e la sua particolarità è quella di avere una splendida cattedrale romanica affacciata sul mare.
Nonostante non creda in Dio, men che meno in qualsiasi forma di religione, Angelica è diretta proprio verso la cattedrale.
Deve percorrere alcune strade appartate e poco illuminate, se non di quando in quando dalle decorazioni natalizie di alcuni negozietti, prima di giungere in Piazza Duomo. La cattedrale è di fronte a lei, con la facciata che, debolmente illuminata dalla luna, sembra assumere un particolare colorito rosaceo.
Le piace quella piazza, ma non si è diretta lì solo per godere di quella vista. Senza fermarsi continua a muoversi. Poco più avanti c’è un basso muretto dove potersi sedere, poi gli scogli che pendono direttamente sul mare. Lei supera con agilità il muretto e si muove decisa saltando da uno scoglio all’altro. Raggiunge una piccola insenatura nascosta da un sasso non particolarmente pesante ma neanche così leggero da venire rimosso per sbaglio da qualche passante. Tira su quel sasso ed estrae dall’insenatura una fotografia.
La fotografia, sporca, strappata e scolorita in più punti, ritrae una ragazza, ferma nell’attimo del suo sorriso più bello, come direbbe Angelica. Quella ragazza si chiama Elena. Nella fotografia sembra poco più giovane di Angelica. Ha due occhi verdi che sembrano concordare con un paio di orecchini ovali della stessa sfumatura. Ed è stata proprio Angelica, quattro anni prima, a regalarglieli. Il naso è piccolo, un po’ adunco, e le labbra sono due lune sottili. Tutto questo è avvolto dalla cornice dei lunghi capelli castani, che scendono ben oltre le sue spalle ma si fermano sulla fronte, con una frangia perfettamente geometrica. Lo sfondo è composto dalle luci e dai colori sfumati di una discoteca.
Angelica sfiora con due dita quella foto, mentre ripensa alla giornata (alla splendida, meravigliosa, irripetibile giornata!) in cui quella foto è stata scattata.
A questo punto della storia intervengo io. Perché, caro lettore, ho visto nel suo sguardo qualcosa che vedo in molti pochi esseri umani, ma ho percepito nel suo rimorso una perdita universalmente riconosciuta. Come sempre, quando appaio, faccio in modo che nessuno, eccezion fatta di colui (o colei!) a cui voglio presentarmi, mi veda. Quando appaio alle spalle di Angelica, in Piazza Duomo non c’è anima viva, a parte noi due, ben inteso.
«Mia cara Angelica» esordisco.
Lei si volta di scatto nella mia direzione perché (non posso biasimarla per questo!) non si è certamente accorta che qualcuno le si è avvicinato. Appena mi vede reagisce come reagiscono tutti: sgrana gli occhi e lancia uno strillo. Mentre lo fa indietreggia in un meccanismo di difesa umano e istintivo, ma perde l’equilibrio e inciampa. Quando prova a tenersi su, la fotografia di Elena le sfugge di mano e vola oltre gli scogli, verso il mare.
Sospirando, schiocco le dita di una mano e la foto, librando nell’aria, torna accanto alla sua proprietaria. Angelica osserva la scena pietrificata e sembra non riuscire a muovere un muscolo.
«Mia cara, dolce bambina» dico. «Non aver paura di me».
Finalmente, forse udendo il tono basso e rassicurante della mia voce, Angelica riesce a deglutire e a dare alito alle sue parole. «Ma… tu sei… Sembri…»
Sorrido. Estendo il piede destro dietro il sinistro, porto l’avambraccio destro sotto il petto e m’inchino, allargando con eleganza il braccio sinistro. «Il diavolo, in persona». Rido nel vedere l’espressione stampata sul suo volto. «Ma non è come credi. Non è come dicono tutti».
«Ma hai le corna… la coda… Il tuo corpo è...»
«Fuoco vivo, sì» convengo. «Ma, come ti ho già anticipato, non è come dicono tutti». Sta riprendendo un po’ di colore. «Tu, cara Angelica, sei molto più simile a me di quanto non credi. E non c’entra niente ciò che dice tua madre. ‘Quella ragazza ha smarrito la strada del Signore!’, ‘Quei ragazzi l’hanno allontanata da Dio!’, ‘Il diavolo l’ha presa in simpatia’… Oh, forse quest’ultima affermazione è decisamente vera».
Angelica ride. Sento che lei stessa non ne comprende il motivo. «Ma perché sei qui?» domanda, una volta ritornata seria. «Com’è possibile?» Afferra la fotografia di Elena. «Perché hai fatto in modo che non cadesse in mare?»
Faccio un cenno con le mani, per intimarle di calmarsi. «Non posso rispondere a così tante domande. In particolare, la seconda è priva d’interesse. Risponderò alla prima: sono qui perché ti ho preso in simpatia. E risponderò alla seconda: ho salvato la fotografia perché, be’, è colpa mia se ti è sfuggita».
«Ma...»
«Basta, mia cara, con le domande. Volevo dirti una cosa che ho notato. Quella fotografia – la ragazza ritratta in quella fotografia – provoca in te un rimpianto che solo l’amore che provi per quella persona può colmare».
«Sei davvero il diavolo?» domanda, arrossendo.
Sorrido per la sua ingenuità. «Chi mi ha dipinto in una certa maniera l’ha fatto perché crede che io sia la faccia scura della luna, l’ombra che copre la luce. Invece, io sono semplicemente quel po’ di anarchia che il mondo necessità. Non sono nero, come contrapposto al bianco. Io sono proprio come te, tanti colori».
«Tanti colori...» mi fa eco lei. Si tira in piedi, sempre stringendo la fotografia. «Hai ragione. Elena… Un rimpianto mi lega a questa fotografia. È colpa di mia mamma! Anche un po’ mia, sì… Però se non fosse stato per lei, per quel suo modo di pensare così bigotto… Ecco, avrei…»
«Avresti dichiarato i tuoi sentimenti a quella ragazza, ma ormai non puoi più farlo perché…»
«Perché Elena è morta» afferma. «Proprio qui, circa quattro anni fa. Il giorno in cui le regalai quegli orecchini che le piacquero così tanto, il giorno del suo diciannovesimo compleanno, il giorno in cui le ho scattato questa foto, questa meravigliosa, insostituibile fotografia…»
Non piange. Sembra non avere più lacrime da versare, da troppo tempo.
Annuisco, comprensivo. «Lo sai, cara Angelica, cara bambina… è così facile…»
Schiocco le dita e per adesso mi faccio da parte. Schiocco ancora una volta le dita, questa volta con entrambe le mani, e la musica irrompe nell’aria. Le luci nella discoteca sono come fuochi d’artificio nella notte quando in città tutti i lampioni sono spenti. I ragazzi e le ragazze sembrano ballare e strillare come se si muovessero in uno spazio discreto anziché continuo.
Angelica ride e sogna e canta e balla. I suoi capelli sono corti ma ancora del loro colore castano naturale. Accanto a lei, Elena  si muove in quell’ambiente con una leggera, ma accattivante goffaggine. I suoi orecchini verdi ruotano come eliche. Le due ragazze, schiena contro schiena si sfiorano e ballano. E cantano. E urlano a squarciagola.
È il giorno del diciannovesimo compleanno di Elena.

II

La musica è martellante, ma a loro piace così. Si scatenano come non hanno mai fatto prima. Insieme a decine di altre persone, si muovono in quella stanza, ma ai loro occhi è proprio la stanza a muoversi, a vibrare: con le sue pareti distanti, con il soffitto alto come l’apoteosi di tutte le altitudini e con l’oscurità accesa di luci e di colori accecanti ma bellissimi, l’intera realtà è circoscritta in quella discoteca e quella discoteca è l’unica realtà che conta per quelle due ragazze che non hanno la minima idea di cosa il futuro le riserverà. Quel che importa davvero è ballare e vivere quel che si può vedere, e Angelica ha sempre pensato che ballare è vivere ciò che si può vedere (e solo quello, niente di più!).
Un brano si arresta all’improvviso per poi venire seguito subito dal successivo, che è una nuova martellata di energia. Un’accozzaglia di tecno e dance che ad Angelica sembra il più suggestivo dei ritmi tribali; poi, come d’incanto, l’oscurità della discoteca sembra sciogliersi in colori più tendenti al pastello. Si ferma e vede intorno a sé l’oceano di persona che continua a ondeggiare. Elena è un tutt’uno con loro, proprio come lo è stata anche lei fino a qualche istante fa. Elena danza con gli occhi chiusi, come in un’estasi di beatitudine.
Ridacchiando, Angelica tira fuori da una tasca il suo smartphone e lo mette in modalità fotocamera.
«Elena!» la chiama, ma il fragore è troppo forte. «Elena!» ripete.
La ragazza alza lentamente le palpebre, mostrando al mondo le sue lune verdi incastonate all’altezza degli occhi. Ride mentre l’amica le scatta all’improvviso una fotografia.
«Per immortalare questo momento» dice Angelica con il labiale. Elena la spinge via divertita e riprende a ballare.
Angelica osserva quella ragazza. È decisamente brilla e non pienamente cosciente di se stessa; però, nonostante tutto, ritiene che sia giunto il momento di portarla in quel luogo speciale che, caro lettore, temo tu abbia già intuito quale sia.
«Elena!» la chiama nuovamente. Si avvicina a lei e le afferra una mano. «Vieni!»
Non oppone resistenza e Angelica la trascina con sé fuori dalla discoteca. Respirano l’aria gelida di dicembre e ben presto raggiungono Piazza Duomo.

*

«Ma io non riesco a capire...» mi sta dicendo Angelica. «Non capisco perché mi stai facendo vedere tutto questo».
Vedo che stringe con entrambe le mani la fotografia di Elena e nei suoi occhi scorgo una nostalgia che mi addolora. «Non ti sto mostrando niente, cara bambina. Tu stai vivendo la notte del tuo rimpianto» le dico.
Dilatando le palpebre, forse cieca di una strana consapevolezza, mi domanda: «Mi stai dicendo che è possibile cambiare qualcosa che è già successo?»
«No» scuoto la testa con tutta la dolcezza possibile. «Sarebbe una catastrofe».
«E allora per quale ragione vuoi che io veda questo inferno?» strilla, senza più riuscire a trattenersi.
Il mio tono si fa più duro e lei sembra intimorirsi. «Non pensavo tu fossi così vigliacca, cara bambina, cara Angelica. Tu stai vivendo la notte del tuo rimpianto perché solo in questo modo potrai riviverla ancora, senza alcun rimpianto».
«No...» dice in un sussurro, capendo che sto per schioccare le dita delle mie mani. «Non voglio...» È sveglia, Angelica. Ha capito che qualcosa sta per succedere. La spaventa, ed è bene che sia così. Dopotutto è umana.
«Sarà doloroso, ma gratificante» dico.

*

Angelica salta con agilità il muretto e poi aiuta Elena a fare la stessa cosa. Sta ridendo e Angelica adora quando lo fa. Iniziano a saltellare da uno scoglio all’altro, immaginando di trovarsi in una grande discoteca che si affaccia direttamente sul mare; finché Elena non ha un giramento di testa che la fa barcollare.
«Ehi, stai bene?» le domanda Angelica.
L’altra inspira a fondo e poi espira. «Mi viene da vomitare. Non avrei dovuto bere così tanto».
«Mi dispiace» si scusa Angelica. «Forse portarti qui non è stata una buona idea…»
Elena sorride. «No, no… Ora mi siedo un attimo».
Si siedono l’una accanto all’altra, in uno scoglio che dà direttamente sul mare. Sono parecchio in alto.
«Sai, Angelica, mi piacerebbe tuffarmi» dice Elena dopo un po’.
«Ti senti un po’ meglio?» domanda l’altra, a sua volta.
«Diciamo».
Angelica sospira. «In che senso ti piacerebbe tuffarti?»
Elena inspira ed espira. «In acqua» risponde. «Con te».
Ha gli occhi chiusi. Angelica pensa che forse è per via dei giramenti di testa e non dice niente; però vorrebbe entrare nella sua mente e sapere cosa sta pensando.
Elena sta facendo ondeggiare piano la testa, quasi impercettibilmente, quasi a ritmo di una musica inudibile.
Questo momento, Angelica l’ha atteso, immaginato e vissuto parecchie volte, ma non si sente ancora pronta. È intenzionata ad avvicinare il proprio volto a quello di Elena, a condividere con lei le stelle del cielo che avrebbe raccolto dal soffitto della sua stanza, quattro anni dopo.
Invece la figura di sua madre risalta ingombrante dentro di sé. Una volta, ha sentito che discuteva con suo padre di un caso di omosessualità utilizzando toni che l’hanno fatta sprofondare nello sconforto.
Che cosa avrebbe detto di lei?
Che cosa avrebbe pensato di lei?
In quale modo l’avrebbe giudicata?
In che modo l’avrebbe derisa?
Che cosa avrebbe diffuso?
Chi sarebbe stata per lei?
Elena riapre gli occhi e li rivolge nella direzione di Angelica. «Balliamo!» Ride e le afferra un braccio, tirandola su con sé. Mentre lei salta e balla (o qualcosa di simile!) tra uno scoglio e l’altro, Angelica rimane immobile a osservarla.
È ancora ferma quando Elena si china in avanti perché evidentemente non si sente ancora bene. Si ritrova pietrificata quando, invece, un giramento di testa forse più forte dei precedenti le fa perdere l’equilibrio.
Elena non vede più nulla. Angelica sente il suo grido interrotto da uno schianto violento che le provoca un brivido gelido lungo la spina dorsale. L’ultimo rumore che sente, prima di pronunciare debolmente il nome di Elena, è quello del mare mentre richiama a sé quel corpo che le è appena stato precluso per sempre.
«No» prova a dire, senza però emettere alcun fiato. «No» ripete, e questa volta riesce ad articolare un suono percettibile. «No!» urla, e adesso i due suoni sono chiaramente distinguibili: n-o. La loro somma contiene la negazione di una realtà terribile, una realtà che s’impone come l’acqua che s’infrange sugli scogli, erodendo e scavando un rimpianto.
Forse riesce in qualche modo a sentirmi mentre faccio schioccare le dita di entrambe le mie mani, perché sbatte le palpebre più e più volte, come se si trovasse in uno stato d’improvvisa e inspiegabile confusione.
«No» dice, quasi proseguendo un evento che non si è ancora verificato.
Elena le rivolge un’occhiata stupita. «Come?»
«No» ripete Angelica, con più convinzione. «Ho detto no, voglio che tu lo apra adesso, non dopo».
Si trovano nella stanza di Angelica ed Elena sta stringendo un pacchetto piccolo con su scritto ‘Auguri Elena’ e con un fiocco rosso a decorarne il lato superiore.
Angelica sorride. Si trovano nella sua stanza, in casa sua. I suoi genitori sono in cucina a discutere di qualche sciocchezza. «Dai, aprilo!»
È il giorno del diciannovesimo compleanno di Elena.

III

«Non farti pregare, dai, aprilo!» insiste Angelica.
Elena finge un’espressione imbronciata. «D’accordo». Scarta il suo regalo con curiosità. Scopre una piccola scatoletta scura che contiene due orecchini verdi.
L’espressione di Elena completa la festiva soddisfazione apparsa sul volto di Angelica. «Lo sapevo, lo sapevo!»
L’altra stringe con entrambe le mani quegli oggetti così piccoli e speciali. «Voglio indossarli».
«Adesso?»
«Adesso!»
Elena manifesta l’intenzione di alzarsi e di spostarsi verso lo specchio, ma Angelica la ferma: «No! Guarderai la tua immagine solo dopo averli indossati». Glieli sfila dalle mani e, mio caro lettore, prova a immaginare, prova a riempire tutti i buchi. Prova a disegnare la gioia negli occhi di entrambe, quando Elena finalmente si specchia. Dopo aver contemplato quell’immagine, Angelica sfiora con il proprio sguardo l’orrendo orologio a forma di unicorno sul suo comodino. Ricorda che anche lei, tanti anni prima, ha avuto quello sguardo. Poi gli occhi dell’una e dell’altra s’incrociano. Sanno che si divertiranno. E lo faranno. L’uscita con gli amici e la cena, la trasgressione in discoteca e, infine, l’una che afferra la mano dell’altra nella notte di un dicembre particolarmente freddo. Su quegli scogli che danno sul mare, dietro di loro la splendida cattedrale dalle tinte impercettibilmente rosate è il simbolo di un rimorso.
Questo è il momento in cui Elena è persa in un’estasi di beatitudine, nonostante il malessere fisico. È il momento in cui Angelica sta per avvicinare il proprio volto a quello di Elena ma è improvvisamente bloccata dagli invisibili imperativi di una madre che non l’ha mai compresa fino in fondo. E, dopotutto, lei stessa non ha provato a farsi capire. Perché ha sempre covato dentro di sé il timore di ricevere una risposta a tutte quelle domande che ragionando anche solo poco sull’umanità e sull’amore appaiono prive di argomenti.  
Che cosa avrebbe detto di lei?
Che cosa avrebbe pensato di lei?
In quale modo…
Non ho schioccato le dita delle mie mani. Angelica sembra vivere un istantaneo stato di confusione. Sente quasi di aver già vissuto quel momento, in qualche modo. Elena sta per riaprire gli occhi ma prima che questo avvenga, Angelica esclama: «Al diavolo!» (e io faccio di tutto per non sentirmi offeso!).
Le labbra delle due ragazze si toccano e qualcuno scatta una fotografia, ma a loro non sembra interessare; poi Elena e Angelica riprendono a ballare e lo fanno fino alla fine.

*

Angelica riapre gli occhi. Si trova sugli scogli dietro Piazza Duomo, da sola. Alla sua sinistra c’è il mare, lì dove quattro anni prima Elena ha esalato il suo ultimo respiro. Non ricorda che cosa è andata a fare in quel luogo. Alla sua destra la cattedrale è incombente, minacciosa e bellissima.
Stringe una fotografia. È confusa, non ricorda di averla scattata. La porta davanti agli occhi e la guarda: sporca, sbiadita e rovinata in più punti, ritrae se stessa ed Elena con gli occhi chiusi, ferme nell’attimo più intimo che la vita ha mai potuto regalare a quelle due giovani amanti.
Prova un brivido di freddo, per cui imbocca la strada di ritorno verso casa, accompagnata da una strana sensazione. Continua a stringere a sé la fotografia. Non sa perché lo sta facendo.
In casa, sua madre è in cucina ad aspettarla, carica di ramanzine. Suo padre sta ancora armeggiando con la pipa.
«Angelica! Dov’eri finita…?»
Quel donnone che Angelica ha per madre sembra vacillare davanti allo sguardo della figlia. È diverso, questa volta. Vede la ragazza avvicinarsi a lei e poggiare sul tavolo la fotografia che fino a quel momento ha avuto tra le mani.
La donna osserva e apre la bocca, come a voler dire qualcosa; ma non lo fa. Non è ancora pronta. Le sue labbra formano una circonferenza e poi sussultano. Sua figlia continua a osservarla e con estrema delicatezza una goccia si stacca dal suo mento. Intenta com’era a contenere la confusione generata in lei da quell’immagine, la donna non si è accorta che la sua bambina sta piangendo.
«Tu» riesce finalmente a dire la donna, e non c’è bisogno del mio intervento per farle pronunciare parole adeguate. «Per tutto questo tempo hai…»
Non fa in tempo a concludere la frase, perché finalmente, dopo quattro lunghi anni, Angelica si scioglie tra le braccia di sua madre. E qui mi fermo. Mi auguro con il mio cuore di diavolo che proseguendo nella lettura vi siate soffermati su quello che conta davvero. Perché miei cari, carissimi lettori, ogni argomentazione vacilla di fronte a una forza così dirompente. Essa riesce, qualsiasi sia la sua forma, a spezzare tutte le barriere. Ve lo dice il diavolo che tanto vi fa paura: non c’è alcun limite all’amore.




mercoledì 29 agosto 2018

Chiazze di parole


Solo chiazze di parole. Entro nella sua stanza. Il soffitto non è molto alto e fa freddo, mentre il primo fiocco di neve si posa sul palmo della mia mano aperta, dove sparisce. Proprio come ha fatto lui. Piano come il volo di una piuma da centinaia di chilometri di altezza. Fresco come la pioggia di settembre che scorre sul suo volto. La neve continua a cadere, attecchisce sul pavimento, sul letto e su tutti i mobili, sul mio volto bagnato. Sopra e sotto cambiano angolazione e riesco a vedere tutti quei bambini che giocano là dove non nevica più. Corro da loro, con i miei scarponi grossi e scomodi. Inciampo, cado e rotolo vicino a un albero che si eleva in altezza fin sopra le nuvole. A me sembra proprio così.
«Ehi, che fai, Forza! Vieni con noi!»
Gli altri bambini mi chiamano e io mi rimetto in sesto solo per essere colpito dalle loro palle di neve e schernito dalle loro risate; ma non c’è cattiveria in tutto questo, perché io sto ridendo con loro. E passo al contrattacco, naturalmente. Non posso lasciarglielo fare come se niente fosse.
Sono vicino a loro e qualcuno mi spinge. Mi avvento su di lui, accompagnato dal coro di incitamenti degli altri. Sempre ridendo, continuiamo a spingerci a vicenda, finché lui non mi tira un gancio in pieno viso.
Mi massaggio la mandibola, poso sul bancone la mia pinta e mi tiro in piedi.
«Che problemi hai, amico? Se la mia ragazza non vuole avere niente a che fare con te, inizierei con il guardarmi allo specchio» gli dico.
Lui è infuriato e si avventa su di me, ringhiando come un cane randagio. Io blocco la sua avanzata e iniziamo a pestarci. Intorno a noi la musica è un sottofondo metallico, ipnotico, dentro di me il cuore martella all’interno del petto. Il pub è solo la platea del palcoscenico su cui si sta svolgendo il vero spettacolo.
Le mie labbra toccano le sue e i miei piedi nudi calpestano l’erba fresca. Lei è quella giusta, l’ho saputo dalla prima volta in cui l’ho baciata. La sua pelle è bianca, candida come la neve. Mi piace la neve. Quand’ero bambino adoravo giocare dopo una grande nevicata, quando le strade erano scivolose e gli alberi sembravano tante piccole montagne innevate.
Lei mi ama, io l’amo. Ho fatto a botte, per lei; ho lasciato la mia famiglia, per lei; ho trovato un lavoro e comprato una casa, tutto per lei. E adesso, su questo prato in cima alla collina, dopo averla baciata m’inginocchio di fronte alla mia donna, mentre le chiedo di sposarmi. Vedo che con una mano si copre la bocca per la sorpresa e i suoi occhi luminosi si fanno lucidi, come la neve fresca.
Le stringo la mano con forza e lei strilla. Sono urla di dolore come non ne ho mai sentite prima d’ora, non provenienti da quelle labbra così piccole.
«Forza, spingi!» la incita il medico.
In tutta risposta, lei continua a gemere e a urlare, e le sue grida diventano mugolii e lacrime. Sta piangendo, la piccola creatura tra le mie braccia, e mentre mio figlio piange, sto piangendo io.
Piango perché mia madre non ce l’ha fatta, infine. Per anni ho vissuto insieme a mio padre, che mi ha raccontato delle storie sulla propria vita. Mi ha descritto di come giocava con la neve, da bambino, di come fossero altri tempi, più belli e più ricchi. Ha descritto il modo in cui ha conquistato il cuore di mia madre, a piedi nudi sull’erba di una magnifica collina. E ora è morto anche lui e non mi ha lasciato molto, anche se quello che ho è molto prezioso.

Mi ha lasciato solo chiazze di parole. Entro nella sua stanza. Il soffitto non è molto alto e fa freddo, mentre il primo fiocco di neve si posa sul palmo della mia mano aperta, dove sparisce. Proprio come ha fatto lui.

Pietro dell'Oglio

giovedì 26 luglio 2018

La rupe scoscesa







L’uomo indugiò troppo a lungo in cima alla rupe scoscesa, la pistola carica in una mano. Anche se il pericolo incombeva e ne era consapevole, non riusciva a staccare lo sguardo dal sole che si nascondeva tra le nuvole e le montagne sullo sfondo del cielo.
Si allontanò di qualche passo, piano, senza distogliere lo sguardo da quel panorama, quasi come se non volesse perderne neanche un istante. Quando fu piuttosto lontano dal precipizio, finalmente riuscì a rivolgere la propria attenzione a quello che stava facendo in quel momento e a tutto ciò che avrebbe potuto perdere. Si allontanò e imboccò il sentiero con l’intenzione di scendere a valle.
Qualcuno sparò nella sua direzione, mancandolo per un soffio. Strinse i denti. Il sole era ormai tramontato del tutto e lui non aveva con sé l’attrezzatura per gli scontri notturni. Sparò qualche colpo al suo inseguitore e prese a correre nella direzione opposta. Non sarebbe dovuto rimanere a osservare quel panorama, quel tramonto. Maledisse il proprio sentimentalismo: l’avrebbe fatto uccidere.
Il suo inseguitore era più attrezzato e stava guadagnando terreno. Sapeva cosa sarebbe successo. Provò a saltare per evitare il colpo che sarebbe arrivato di lì a poco, ma il proiettile lo colpì al polpaccio sinistro. Urlò e ruzzolò a terra di qualche metro; a causa del dolore e del volo dovette allentare la presa della pistola, che cadde poco più avanti.
Il suo inseguitore si avvicinò fulmineo e gli iniettò qualcosa all’altezza del collo che lo immobilizzò completamente. Si avvicinò e gli tirò su la testa.
«Sì, sei proprio chi stavo cercando».
«Perché… vuoi uccidermi?» pronunciò l’altro, tra i gemiti di dolore.
«Dovresti saperlo meglio di me», disse. Il viso rugoso e privo di barba ostentava un’espressione di altezzosa derisione. Indossava la divisa azzurra dei ripulitori. Gli porse una mano. «Io sono l’agente Samay ka Majaak».
«Devi ascoltarmi. Niente è come ti è stato insegnato fino a oggi» implorò l’uomo.
L’agente Samay rimase impassibile, con la mano tesa in direzione dell’altro il quale, d’altro canto, era immobilizzato a causa del veleno che gli era stato iniettato. «Io mi sono presentato. Vorresti dirmi il tuo nome?»
L’espressione di derisione rimase immutata.
L’uomo strinse i denti. «Lasciami spiegare. Ascoltami».
Il ripulitore puntò la propria pistola sulla fronte dell’uomo steso a terra. «Ti ho fatto una domanda».
«Davvero vuoi sapere il mio nome? Aadamee…»
Un boato spezzò le sue parole. Dal buco che si era creato sulla fronte dell’uomo sgorgò un rivolo di sangue.
Samay sistemò la propria pistola nella fondina e si alzò, pulendo via la polvere dalla sua divisa. «Idiota».

I

L’agente Samay ka Majaak posò alcuni documenti sulla propria scrivania e si diresse nello studio dell’ispettore del suo distretto.
«Samay» lo salutò l’ispettore Sir, con un cenno del capo. «Com’è andata là fuori?»
L’agente annuì, si avvicinò a una sedia e vi si sedette. «Il doppio denunciato dal signor Aadamee è morto».
Sir gli rivolse un’occhiata preoccupata. «Non è sorto nessun problema?»
«Nessun problema». Tirò fuori da una delle tasche della divisa un pacchetto di sigarette, estraendone una. «C’era però davvero un bel panorama, su quella rupe scoscesa. Forse ci porto mia figlia questo fine settimana».
«Sì, hai bisogno di rilassarti un po’».
«Grazie». Si rigirò la sigaretta tra le dita. «Posso andare?»
«Certo, Samay», concesse l’ispettore; poi aggiunse, prima che l’agente fosse uscito dalla stanza: «Un’ultima cosa. Il signor Aadamee è in sala d’attesa. Vuole parlare con te. Vai a vedere cos’ha da dire».
Samay annuì. «È un brav’uomo, quell’Aadamee».

Quando l’agente entrò nella sala d’attesa, il signor Aadamee si alzò per cortesia. «Agente Samay», lo salutò. Era un uomo piuttosto in età, calvo e con una folta barba grigiastra. Aveva il tatuaggio di un serpente che si morde la coda poco sotto l’orecchio sinistro.
«Aadamee», rispose. «L’ispettore mi ha detto che vuoi parlarmi».
«È così». Infilò una mano in tasca, come se stesse cercando qualcosa.
«Andiamo fuori, ti spiace? Vorrei fumare questa sigaretta». Se la rigirò tra le mani.
Aadamee tirò fuori dalla tasca un biglietto da visita e lo porse all’agente. «In realtà volevo mostrarle qualcosa».
 Samay afferrò il biglietto. C’era un indirizzo. «Dovrei venire qui?»
«Se è curioso di sapere».
Samay scosse le spalle e fece per restituirglielo. «Non sono curioso».
Aadamee si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «Lo tenga, magari cambierà idea. In ogni caso, io l’aspetterò».
«Abbiamo finito?»
Annuì.
«Può andare a fumare la sua sigaretta, agente». Mentre l’altro si voltava, aggiunse: «Io credo che verrà».
 Samay si richiuse la porta alle spalle e andò a fumarsi la sigaretta.

II

«Sono a casa!» disse Samay, richiudendosi la porta alle spalle. Sua moglie venne ad accoglierlo con un gran sorriso.
«Bentornato caro, com’è andata la caccia?»
«Il doppio denunciato dal signor Aadamee è stato piuttosto semplice da prendere» rispose l’agente.
Sua moglie gli lanciò un’occhiata interrogativa. «E tu stai bene?»
Samay annuì. «Sì, sì. Certo». Si guardò intorno. «Dov’è Betee?»
«Arriverà tra qualche minuto. Vieni, Samay, ti porto qualcosa da bere. Così starai meglio».
«Sto bene» ripeté, infastidito; però la seguì in cucina. Lei gli offrì un bicchiere di succo di frutta. Lo accettò volentieri e bevve avidamente.
«Sai, Samay, a volte mi sembra tutto così irreale».
L’agente continuò a bere in silenzio.
«Tutta questa storia dei doppi e delle linee temporali alternative. I viaggi nel tempo. Sono così affascinanti e allo stesso tempo irreali».
«Sono illegali» disse Samay. «E sarebbe tanto meglio se non fossero reali».
«Se così fosse non esisterebbero i doppi» fece lei. «E di conseguenza neanche i ripulitori».
Samay scosse le spalle, poggiando il bicchiere vuoto sul tavolo. «Avrei potuto trovare un altro lavoro, in tal caso. Avrei potuto fare il barbiere».
Sua moglie gli lanciò un’occhiata perplessa. «Il barbiere?»
Dopo qualche istante di silenzio scoppiarono entrambi a ridere.
«Mamma! Papà! Sono tornata!» esclamò una voce, dopo che la porta dell’ingresso fu spalancata. Betee li raggiunse in cucina. Era una ragazza di quindici anni, capelli corti e occhi chiari. Si rivolse a suo padre: «Com’è andata, papà? Stai bene?»
Samay annuì con vigore. «Sì, sì, sto bene. Non preoccuparti». Parve riflettere per qualche istante. «Betee? Domattina non c’è scuola, giusto? Ti porto a vedere un posto fantastico!»

III

Il giorno seguente, Samay e Betee erano seduti l’uno di fianco all’altra sulla rupe scoscesa ad ammirare il paesaggio che si estendeva dinnanzi a loro, in attesa del tramonto. C’erano le montagne, in lontananza, tra le quali si potevano scorgere macchie di civiltà. Sotto di loro un fiume fluiva ambizioso in direzione del mare, dove aveva la sua foce a delta. Si trovavano tanto in alto che il vuoto sembrava chiamarli, volerli portare con sé.
«Sei ancora convinta?» disse a un tratto Samay, spezzando il silenzio e spegnendo la sigaretta che aveva fumato fino a quel momento.
«Di cosa?»
«Di diventare anche tu un ripulitore».
Lei abbassò la testa. «Lo hai detto alla mamma?»
«Non ancora. Ma prima o poi dovrà saperlo».
«Sì, è vero» convenne, ma non aggiunse altro. Ritornò ad abbracciare con lo sguardo il panorama di fronte e sotto di loro.
«Betee» disse Samay dopo qualche minuto di silenzio. «Questo è il luogo in cui ho ucciso il doppio denunciato dal signor Aadamee».
Lei gli rivolse nuovamente l’attenzione, senza dire nulla.
«Credo sia il luogo adatto per parlarti di una cosa molto importante, Betee. Se dopo aver udito quanto ti sto per dire vorrai ancora seguire le mie orme e diventare un ripulitore, be’, avrai tutto il mio consenso».
La ragazza annuì.
Samay si inumidì le labbra e le chiese: «I viaggi nel tempo sono illegali. Sai perché?»
«Certo», rispose la ragazza, prontamente. «Se un individuo A viaggia indietro nel tempo si sposta su un’altra linea temporale – quasi sempre generandone una nuova – dove sono presenti due A».
«L’originale di quella linea temporale e il suo doppio, colui che ha viaggiato indietro nel tempo», completò Samay. «Il compito dei ripulitori è quello di eliminare i doppi».
La ragazza annuì. «Solo che è strano tutto questo. Fisicamente intendo».
«Non farci caso. Non è questo, comunque, il punto. Sai bene che da quanto ti ho appena detto consegue che un ripulitore potrebbe ritrovarsi di fronte al doppio di se stesso».
Betee abbassò lo sguardo. «Già, e tu come…?»
«Il tuo, Betee, l’ho già incontrato».
Lei strabuzzò gli occhi. «Come? Quando?»
«Eri nata soltanto da pochi mesi. Il tuo doppio era di fronte a noi. L’ho capito subito perché nel chip impiantato all’interno della mia testa è scattato l’allarme e mi è stata mostrata l’identità del doppio. Ricordo la sua confusione. Ha balbettato le solite cose che dicono i doppi: “Non è come ti hanno sempre insegnato”, “Lasciami spiegare, ti prego”; cose così. L’ho osservato incantato, comunque. Nonostante tutto, si trattava della mia bambina proveniente dal futuro. Non mi sono mai capacitato del fatto che avesse potuto compiere un’infrazione di quel tipo; ma con le linee temporali alternative e tutto quanto, be’, può succedere di tutto».
«E che hai fatto, dopo?»
«Lei si è girata, spaventata. Ha preso a correre. Le ho sparato».
«È morta?»
«È morta».
Tra i due calò un silenzio imbarazzato, interrotto dall’alba che spuntò tra le montagne in lontananza. Rimasero a osservarla senza dire una parola; poi Samay tirò fuori una pistola.
«Questa apparteneva al doppio denunciato dal signor Aadamee, non so perché l’ho tenuta». Sospirò. «Diavolo, Betee, non so neanche perché io ti stia dicendo queste cose».
In alcune occasioni sentiva come se fosse necessario fare e dire determinate cose. Non era mai riuscito a spiegarselo.
«E questo cos’è?» domandò Betee, afferrando il biglietto da visita del signor Aadamee, che era caduto fuori da una tasca di Samay.
L’agente glielo strappò dalle mani con rapidità. «Niente». Poi le sorrise. «È meglio se ritorniamo. Ci aspetta una colazione coi fiocchi!»

IV

Nel pomeriggio, dopo il lavoro, Samay andò dal signor Aadamee. Non avrebbe voluto, ma era un altro degli avvenimenti che dentro di sé sentiva che avrebbero dovuto prendere luogo necessariamente. Non rimase a rimuginarci troppo su. Arrivò all’indirizzo segnato sul biglietto che il giorno precedente gli aveva consegnato il signor Aadamee e bussò alla porta. Venne ad aprirgli un uomo sui trent’anni, con un tatuaggio sotto l’orecchio identico a quello del signor Aadamee: un serpente che si morde la coda.
Il chip impiantato nella testa di Samay si attivò. L’agente estrasse la pistola e la puntò contro l’uomo. «Sei un doppio del signor Aadamee!»
«Sei venuto ad accogliere il nostro agente senza lo schermo, Aadamee?» disse una terza figura che comparve alle spalle di Samay. Lui si voltò e lo vide. Anziano, calvo e con la barba grigia: era il signor Aadamee che aveva incontrato nel distretto dei ripulitori.
«Non è importante. Conosciamo già tutti quello che sta per accadere» disse, e poi aggiunse, rivolgendosi a Samay: «Non mi ucciderai, agente Samay».
«Vedremo!» Premette il grilletto e la pistola fece cilecca.
«Infatti», sospirò il giovane Aadamee; poi qualcosa colpì con violenza Samay sulla nuca e tutto si oscurò.

Quando riaprì gli occhi, Samay aveva mani e piedi legate. Alla sua destra c’era una sfera fluttuante che emetteva bagliori grigiastri. L’agente la riconobbe: era una macchina del tempo. Di fronte a sé, però, vide con sgomento sua figlia Betee, legata proprio come lui.
«Papà…»
«Mi hai seguito!» esclamò lui, furioso. «Perché?»
«Mi sembrava necessario farlo… Dovevo trovarmi anche io in questo luogo, con te…»
«Ma cosa stai…?»
Qualcuno batté le mani ed entrambi si zittirono. Aadamee giovane fece la sua comparsa. «La tua cara figlioletta sta dicendo cose interessanti». Si avvicinò a entrambi i due prigionieri e si sedette per terra, incrociando le gambe. «Prima di gettarvi in pasto al vostro destino voglio spiegarvi ogni cosa. Come ho sempre fatto con voi due e con tutti gli altri. E come continuerò a fare».
Samay si accorse che nessun allarme era più attivo nella sua testa.
«Te ne sei accorto» convenne Aadamee. «Il tuo allarme scatta quando qualcuno instaura un contatto visivo con il se stesso del passato. Lo schermo di protezione lo aggira senza troppi problemi».
«No! L’allarme scatta quando sono in presenza di un doppio!»
Aadamee ridacchiò. «Questo è quello che vi hanno sempre raccontato. La verità è un’altra. Non esistono linee temporali differenti o cose del genere. Chi viaggia nel tempo si ritrova su un’altra linea temporale? Ma quale assurdità. Il tempo è relativo e scorre in maniera diversa per ogni singolo individuo».
«Cosa intendi dire?» azzardò Betee.
«Intendo dire che raccontano un mucchio di stronzate ai ripulitori per nascondere il fatto che esiste un disegno, dietro tutto quanto. Quando l’ho scoperto e dimostrato, parecchi anni nel futuro, hanno ideato nel passato i ripulitori per fare in modo che nessuno potesse parlare con il se stesso proveniente dal futuro, per non smascherare la menzogna».
«Cos’hai… scoperto?» domandò ancora la ragazza.
«Betee» l’ammonì Samay.
«No, agente, mi piace la curiosità di tua figlia». Si rivolse a lei. «Passato, presente e futuro, mia cara, sono definizioni arbitrarie attribuite dall’uomo a qualcosa che non può neanche lontanamente immaginare. Ognuno di noi vive il suo personale percorso. Qualcuno lo vive in linea retta – e quindi passato, presente e futuro sono esattamente come ve li raccontano –, ma altri sono rinchiusi in percorsi irregolari e, addirittura, qualcuno è intrappolato in un cerchio. Ed è qui, mia cara, che sorge il problema. Tutti i percorsi di tutti gli uomini sono, a loro volta, racchiusi nel percorso dell’umanità. Questo è un cerchio. Affinché l’umanità esista nel passato, dovrà succedere qualcosa nel futuro». Si rivolse a Samay. «Non ci sono doppi, non ci sono linee temporali alternative. Se qualcuno incontra se stesso avviene semplicemente perché nel suo percorso si genera un nodo. S’incastra con se stesso».
«Vorresti farmi credere che tutto quello che facciamo, tutta la nostra intera esistenza…»
«Siamo tutti ingranaggi di un meccanismo che si genera da sé» completò Aadamee. «Anche la nascita dei ripulitori, in qualche modo, è parte di tale meccanismo. Altrimenti saremmo tutti scomparsi da un pezzo».
Comparve nella stanza il vecchio Aadamee. «Bene, ora tocca a voi». Tirò su Betee. Le liberò i piedi e le mani; poi la condusse accanto al globo fluttuante. «Toccalo».
Lei gli rivolse un’occhiata spaventata.
«Betee, non farlo» ingiunse suo padre. «Prendete me, ma liberate lei».
Nessuna risposta. Il vecchio Aadamee si rivolse ancora una volta alla ragazza. «Tocca il globo».
«Vi prego…» implorò Samay.
«Toccalo!»
Betee eseguì e scomparve.
Samay rimase imbambolato, mentre l’altro Aadamee gli liberava i piedi e le mani. Gli fu riconsegnata la pistola.
«Ora tocca a te».
Non appena fu liberato, l’agente puntò la pistola contro il giovane Aadamee. «Maledetti bastardi» inveì. «Dove l’avete mandata?»
«Dovresti chiederci quando l’abbiamo mandata. E finiscila con quella pistola, non funziona così. In ogni caso il tuo destino ti sta aspettando».
Il vecchio Aadamee lo spinse verso il globo fluttuante, che parve catturarlo a sé. Proprio come sua figlia, l’agente Samay scomparve.

BETEE

Si ritrovò in una piazza gremita di persone. Si guardò intorno per scoprire se ci fosse un viso familiare.
«Papà?» domandò, con un filo di voce. Abbassò la testa dopo che qualcuno le rivolse un’occhiata incuriosita. S’incamminò, con la mente piena di domande, e finalmente lo vide. Suo padre si trovava in fondo alla piazza, in compagnia di sua madre. Iniziò a correre nella loro direzione.
«Papà!» lo chiamò. Lui le rivolse un’occhiata confusa; poi Betee vide che sua madre aveva tra le braccia una bambina di pochi mesi. Arrestò la corsa, con una terribile consapevolezza che si faceva largo nella sua mente.
Il volto di suo padre ebbe uno scossone. Era l’allarme che scattava in presenza dei doppi. Betee era, in quel momento, il doppio di se stessa.
«Papà, ti prego. Lasciami spiegare» implorò, con un filo di voce. «Non è come ci hanno sempre insegnato».
Dilatò le palpebre e si portò le mani davanti alla bocca, mentre l’agente Samay estraeva piano la pistola: era proprio come suo padre le aveva raccontato sulla rupe scoscesa!
Presa dal panico si voltò e incominciò a correre nella direzione da cui era arrivata.
«Disperdetevi, tutti quanti!» proruppe tonante la voce di Samay. «È un doppio».
Premette il grilletto e Betee precipitò al suolo, morta sul colpo.

SAMAY

Si ritrovò in un sentiero di montagna, circondato da una fitta vegetazione.
«Betee!» chiamò, a gran voce. «Betee!»
Percorse lo stretto sentiero con la pistola carica in una mano, pronunciando di quando in quando il nome di sua figlia, finché non riconobbe il luogo. A quel punto comprese il significato delle parole dei due Aadamee.
«Oh no…» mormorò, in un soffio.
Si mise a correre finché non raggiunse la rupe scoscesa. Nonostante l’impellenza e l’enormità di quello che stava per accadere, non riuscì a evitare di fissare il sole che tramontava in lontananza, mentre si nascondeva tra le nuvole e le montagne. Il cielo stava assumendo una tetra colorazione rossastra.
Indugiò troppo a lungo; poi diede le spalle a quel panorama e imboccò il sentiero dall’altro lato, con l’intenzione di scendere a valle. Solo quando udì qualcuno sparare nella sua direzione senza colpirlo riconobbe l’enormità dell’errore che aveva compiuto. Era privo dell’attrezzatura notturna, per cui sparò qualche colpo alla cieca in direzione del suo inseguitore e prese a correre.
Ma era troppo tardi. Sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco. Conosceva il modo in cui l’altro avrebbe colpito. Saltò per evitare il colpo che avrebbe potuto raggiungerlo di lì a poco, ma fu colpito in pieno al polpaccio sinistro. Con un urlo cadde a terra, rotolando di qualche metro. Perse la presa della pistola.
L’uomo che aveva sparato gli fu subito sopra. Gli iniettò del veleno immobilizzante e gli tirò su la testa per i capelli.
«Sì, sei proprio chi stavo cercando».
Il panico parve impossessarsi di Samay. «Perché… vuoi uccidermi?»
«Dovresti saperlo meglio di me».
Samay ricordava con chiarezza quel dialogo, eppure qualcosa gli impediva di cambiarlo, modificarlo. Teoria del caos, rifletté. Anche un piccolo cambiamento…
L’altro assunse un’espressione di derisione, quando si presentò: «Io sono l’agente Samay ka Majaak»
Il signor Aadamee ha denunciato il mio doppio solo per arrivare a questo?, si domandò Samay, disperato. «Devi ascoltarmi» disse. «Niente è come ti è stato insegnato fino a oggi».
«Io mi sono presentato» disse l’altro, ignorandolo. «Vorresti dirmi il tuo nome?»
«Lasciami spiegare». Strinse i denti. «Ascoltami».
L’altro gli puntò la pistola sulla fronte. «Ti ho fatto una domanda».
Samay chiuse gli occhi per qualche istante. «Davvero vuoi sapere il mio nome?» Deglutì. «Aadamee…»
L’agente Samay ka Majaak premette il grilletto, sistemò la propria pistola e pulì via la polvere dalla divisa.
«Idiota» disse. Si allontanò dal corpo del proprio doppio. C’era un luogo, poco più avanti, che aveva visto di sfuggita mentre era occupato con l’inseguimento. Regalava davvero un bel panorama. Ci avrebbe portato sua figlia lassù, avrebbe dovuto dirlo all’ispettore capo. Avrebbe chiesto il fine settimana libero per portare sua figlia su quella rupe scoscesa. Le sarebbe piaciuto, lo sapeva. Era proprio un bel posto.

V

«Aadamee?»
«Cosa c’è, Aadamee?»
«Ho fatto qualche ricerca. Samay ka Majaak. Un nome insolito, non è vero?»
«Parecchio».
«È hindi. Significa scherzo del tempo».
Il vecchio si grattò la nuca priva di capelli. «È davvero di cattivo gusto».
Il giovane annuì, ma sorrise. «Chissà che scopo ha tutto questo all’interno del grande meccanismo».
«Lo scopriremo, Aadamee. Siamo qui per questo».
«O forse lo abbiamo già scoperto». Il giovane osservò il cielo fuori dalla finestra. «Dipende dall’angolazione da cui osservi».

Pietro dell'Oglio