Un
giorno mi dicesti di non amarmi, perché amandomi avresti rotto quel sottile
velo che separa le cose belle da quelle brutte. Io ti risposi con un sorriso,
senza aprire la bocca, niente di niente. Oggi vorrei averlo fatto, vorrei
guardare il tuo viso per l’ultima volta e rassicurarti che no, non si rompe niente,
ti amo e posso dirtelo ancora e ancora, finché non ti stancherai di me, finché
non mi stancherò di te. Succede, a gente come noi, ma tu non volevi che finisse
e quindi non hai mai fatto iniziare niente. Non ho insistito e ora lo
rimpiango, ora che non potrà mai più cominciare.
Quando
siamo arrivati su questo pianeta magnifico – noto come Agàpis – con gli alberi
che ripetono incessantemente frasi nelle più svariate lingue dell’universo, con
le radici che crescono verso l’alto e con le foglie grosse, tozze, che
ricordano vagamente dei pomodori, questo pianeta con le praterie che sono
distese infinite di lunghi steli d’erba dalla consistenza dell’acqua e mari che
altro non sono se non immensi pozzi di polvere colorata che si muove, libra,
incanta, in questo pianeta, per la prima volta, ci siamo sentiti a casa. Perché
siamo due studiosi, io e te, e mentre tu sei andata alla ricerca delle più bizzarre
forme di fauna per studiarne la biologia, il mio interesse principale era
quello di provare a capire la lingua e il modo di esprimere il linguaggio degli
agàpestri, il popolo che abita questo pianeta.
Giorno
dopo giorno mi hai parlato di quelle specie così simili alle volpi del nostro
pianeta, ma con il pelo azzurro, con la capacità di saltare volteggiando nell’aria,
lasciandosi dietro una scia simile alla schiuma del mare che s’infrange sugli
scogli; mi hai raccontato di canidi con sei zampe, privi di denti, e con una folta
criniera arancione, creature talmente buffe che non siamo riusciti a smettere
di ridere per tutto il resto della serata; mi hai mostrato gli ologrammi di
enormi bestie dall’aspetto celestiale, alti più di due metri, impressionanti ma
al contempo idioti come il più stupido dei koala.
Ogni
sera sei tornata a casa con qualche informazione in più, pezzetto dopo pezzetto
hai iniziato a lavorare sul puzzle di questo nuovo ecosistema. Sono sempre
stato orgoglioso, di te, lo sai bene. Posso dirtelo adesso, posso essere
sincero fino in fondo. Ero contento dei tuoi progressi, ma t’invidiavo, perché
io non riuscivo a concludere nulla. Per giorni, mesi… anni, non sono riuscito a comprendere la lingua degli agàpestri.
Il
loro modo di articolare le parole e il suono che emettono quelle labbra grigie è
del tutto identico al nostro. All’inizio non riuscivo, però, ad afferrare le
parole, le varie sequenze di suoni non mi erano chiare, e per un momento ho
avuto la strana sensazione che lo facessero apposta, che non volessero che
qualcuno come me capisse cosa si dicessero; ma io ero determinato a comprendere
i loro discorsi più di ogni altra cosa e hanno afferrato la mia determinazione
perché, a un certo punto, ho capito.
È
esattamente come avevo pensato. Se loro vogliono escludere dai loro discorsi
qualcuno che non è un agàpestre, possono farlo anche solo volendo. E lo fanno
per una semplice ragione. La loro lingua, per chiunque altro che non sia un agàpestre,
funziona come un cancro. Me l’hanno detto loro, nella loro lingua. Gli alberi, hanno
aggiunto, comprendono tutte le lingue dell’universo, e ripetono ciò che gli si
dice. Quando io e te siamo arrivati su questo pianeta, la prima cosa che
abbiamo notato è stata quella foresta in cui ci è sembrato che gli alberi
dicessero cose incomprensibili. Si tratta di messaggi delle popolazioni che
sono giunte sin qui: «non
parlate con gli agàpestri», dicono le voci degli alberi, «non provateci nemmeno».
È in questo, però, ho deciso di distinguermi. Ho completato questa
registrazione perché tu possa trasmetterla, ma c’è qualcosa per te e solo per
te, tra le voci della foresta.
Mi dispiace,
Max
*
Greta ascoltò la registrazione senza
respirare. È uno scherzo, si disse. È un dannatissimo scherzo. Per cui posò con
finta calma il registratore sul tavolino del suo studio, nella nave. Tornerà,
si ripeteva. Voleva convincersi che fosse davvero così. Non ha senso, non ha
proprio alcun senso, come può una lingua rivelarsi mortale?
Non può, per davvero.
Si catapultò fuori dalla nave e corse senza
mai fermarsi verso la foresta. Fu accolta dalle centinaia, se non migliaia di
sussurri e mormorii provenienti da chissà dove all’interno di quegli alberi
così strani che, in quel momento, le parvero raccapriccianti.
È un cimitero? È un diavolo di
stramaledetto cimitero?
Tra le fredde, distanti, voci
appartenute a linguisti provenienti da tutti gli angoli dell’universo, l’unica
che la fece sussultare proveniva da più di un albero. Al centro esatto c’era il
corpo di Max privo di sensi.
«Non ti preoccupare» sussurrò un
albero, con la dolcezza della sua voce.
«Non si rompe niente» continuò l’albero alle sue spalle. «Ti amo e posso dirtelo ancora e
ancora». E poi: «finché
non ti stancherai di me, finché non mi stancherò di te».
Tutta la foresta si zittì per pochi
istanti, e quando Greta scivolò in lacrime tra le braccia dell’amato, gli
alberi piansero insieme a lei.
Pietro dell'Oglio
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