giovedì 26 luglio 2018

La rupe scoscesa







L’uomo indugiò troppo a lungo in cima alla rupe scoscesa, la pistola carica in una mano. Anche se il pericolo incombeva e ne era consapevole, non riusciva a staccare lo sguardo dal sole che si nascondeva tra le nuvole e le montagne sullo sfondo del cielo.
Si allontanò di qualche passo, piano, senza distogliere lo sguardo da quel panorama, quasi come se non volesse perderne neanche un istante. Quando fu piuttosto lontano dal precipizio, finalmente riuscì a rivolgere la propria attenzione a quello che stava facendo in quel momento e a tutto ciò che avrebbe potuto perdere. Si allontanò e imboccò il sentiero con l’intenzione di scendere a valle.
Qualcuno sparò nella sua direzione, mancandolo per un soffio. Strinse i denti. Il sole era ormai tramontato del tutto e lui non aveva con sé l’attrezzatura per gli scontri notturni. Sparò qualche colpo al suo inseguitore e prese a correre nella direzione opposta. Non sarebbe dovuto rimanere a osservare quel panorama, quel tramonto. Maledisse il proprio sentimentalismo: l’avrebbe fatto uccidere.
Il suo inseguitore era più attrezzato e stava guadagnando terreno. Sapeva cosa sarebbe successo. Provò a saltare per evitare il colpo che sarebbe arrivato di lì a poco, ma il proiettile lo colpì al polpaccio sinistro. Urlò e ruzzolò a terra di qualche metro; a causa del dolore e del volo dovette allentare la presa della pistola, che cadde poco più avanti.
Il suo inseguitore si avvicinò fulmineo e gli iniettò qualcosa all’altezza del collo che lo immobilizzò completamente. Si avvicinò e gli tirò su la testa.
«Sì, sei proprio chi stavo cercando».
«Perché… vuoi uccidermi?» pronunciò l’altro, tra i gemiti di dolore.
«Dovresti saperlo meglio di me», disse. Il viso rugoso e privo di barba ostentava un’espressione di altezzosa derisione. Indossava la divisa azzurra dei ripulitori. Gli porse una mano. «Io sono l’agente Samay ka Majaak».
«Devi ascoltarmi. Niente è come ti è stato insegnato fino a oggi» implorò l’uomo.
L’agente Samay rimase impassibile, con la mano tesa in direzione dell’altro il quale, d’altro canto, era immobilizzato a causa del veleno che gli era stato iniettato. «Io mi sono presentato. Vorresti dirmi il tuo nome?»
L’espressione di derisione rimase immutata.
L’uomo strinse i denti. «Lasciami spiegare. Ascoltami».
Il ripulitore puntò la propria pistola sulla fronte dell’uomo steso a terra. «Ti ho fatto una domanda».
«Davvero vuoi sapere il mio nome? Aadamee…»
Un boato spezzò le sue parole. Dal buco che si era creato sulla fronte dell’uomo sgorgò un rivolo di sangue.
Samay sistemò la propria pistola nella fondina e si alzò, pulendo via la polvere dalla sua divisa. «Idiota».

I

L’agente Samay ka Majaak posò alcuni documenti sulla propria scrivania e si diresse nello studio dell’ispettore del suo distretto.
«Samay» lo salutò l’ispettore Sir, con un cenno del capo. «Com’è andata là fuori?»
L’agente annuì, si avvicinò a una sedia e vi si sedette. «Il doppio denunciato dal signor Aadamee è morto».
Sir gli rivolse un’occhiata preoccupata. «Non è sorto nessun problema?»
«Nessun problema». Tirò fuori da una delle tasche della divisa un pacchetto di sigarette, estraendone una. «C’era però davvero un bel panorama, su quella rupe scoscesa. Forse ci porto mia figlia questo fine settimana».
«Sì, hai bisogno di rilassarti un po’».
«Grazie». Si rigirò la sigaretta tra le dita. «Posso andare?»
«Certo, Samay», concesse l’ispettore; poi aggiunse, prima che l’agente fosse uscito dalla stanza: «Un’ultima cosa. Il signor Aadamee è in sala d’attesa. Vuole parlare con te. Vai a vedere cos’ha da dire».
Samay annuì. «È un brav’uomo, quell’Aadamee».

Quando l’agente entrò nella sala d’attesa, il signor Aadamee si alzò per cortesia. «Agente Samay», lo salutò. Era un uomo piuttosto in età, calvo e con una folta barba grigiastra. Aveva il tatuaggio di un serpente che si morde la coda poco sotto l’orecchio sinistro.
«Aadamee», rispose. «L’ispettore mi ha detto che vuoi parlarmi».
«È così». Infilò una mano in tasca, come se stesse cercando qualcosa.
«Andiamo fuori, ti spiace? Vorrei fumare questa sigaretta». Se la rigirò tra le mani.
Aadamee tirò fuori dalla tasca un biglietto da visita e lo porse all’agente. «In realtà volevo mostrarle qualcosa».
 Samay afferrò il biglietto. C’era un indirizzo. «Dovrei venire qui?»
«Se è curioso di sapere».
Samay scosse le spalle e fece per restituirglielo. «Non sono curioso».
Aadamee si lasciò sfuggire un mezzo sorriso. «Lo tenga, magari cambierà idea. In ogni caso, io l’aspetterò».
«Abbiamo finito?»
Annuì.
«Può andare a fumare la sua sigaretta, agente». Mentre l’altro si voltava, aggiunse: «Io credo che verrà».
 Samay si richiuse la porta alle spalle e andò a fumarsi la sigaretta.

II

«Sono a casa!» disse Samay, richiudendosi la porta alle spalle. Sua moglie venne ad accoglierlo con un gran sorriso.
«Bentornato caro, com’è andata la caccia?»
«Il doppio denunciato dal signor Aadamee è stato piuttosto semplice da prendere» rispose l’agente.
Sua moglie gli lanciò un’occhiata interrogativa. «E tu stai bene?»
Samay annuì. «Sì, sì. Certo». Si guardò intorno. «Dov’è Betee?»
«Arriverà tra qualche minuto. Vieni, Samay, ti porto qualcosa da bere. Così starai meglio».
«Sto bene» ripeté, infastidito; però la seguì in cucina. Lei gli offrì un bicchiere di succo di frutta. Lo accettò volentieri e bevve avidamente.
«Sai, Samay, a volte mi sembra tutto così irreale».
L’agente continuò a bere in silenzio.
«Tutta questa storia dei doppi e delle linee temporali alternative. I viaggi nel tempo. Sono così affascinanti e allo stesso tempo irreali».
«Sono illegali» disse Samay. «E sarebbe tanto meglio se non fossero reali».
«Se così fosse non esisterebbero i doppi» fece lei. «E di conseguenza neanche i ripulitori».
Samay scosse le spalle, poggiando il bicchiere vuoto sul tavolo. «Avrei potuto trovare un altro lavoro, in tal caso. Avrei potuto fare il barbiere».
Sua moglie gli lanciò un’occhiata perplessa. «Il barbiere?»
Dopo qualche istante di silenzio scoppiarono entrambi a ridere.
«Mamma! Papà! Sono tornata!» esclamò una voce, dopo che la porta dell’ingresso fu spalancata. Betee li raggiunse in cucina. Era una ragazza di quindici anni, capelli corti e occhi chiari. Si rivolse a suo padre: «Com’è andata, papà? Stai bene?»
Samay annuì con vigore. «Sì, sì, sto bene. Non preoccuparti». Parve riflettere per qualche istante. «Betee? Domattina non c’è scuola, giusto? Ti porto a vedere un posto fantastico!»

III

Il giorno seguente, Samay e Betee erano seduti l’uno di fianco all’altra sulla rupe scoscesa ad ammirare il paesaggio che si estendeva dinnanzi a loro, in attesa del tramonto. C’erano le montagne, in lontananza, tra le quali si potevano scorgere macchie di civiltà. Sotto di loro un fiume fluiva ambizioso in direzione del mare, dove aveva la sua foce a delta. Si trovavano tanto in alto che il vuoto sembrava chiamarli, volerli portare con sé.
«Sei ancora convinta?» disse a un tratto Samay, spezzando il silenzio e spegnendo la sigaretta che aveva fumato fino a quel momento.
«Di cosa?»
«Di diventare anche tu un ripulitore».
Lei abbassò la testa. «Lo hai detto alla mamma?»
«Non ancora. Ma prima o poi dovrà saperlo».
«Sì, è vero» convenne, ma non aggiunse altro. Ritornò ad abbracciare con lo sguardo il panorama di fronte e sotto di loro.
«Betee» disse Samay dopo qualche minuto di silenzio. «Questo è il luogo in cui ho ucciso il doppio denunciato dal signor Aadamee».
Lei gli rivolse nuovamente l’attenzione, senza dire nulla.
«Credo sia il luogo adatto per parlarti di una cosa molto importante, Betee. Se dopo aver udito quanto ti sto per dire vorrai ancora seguire le mie orme e diventare un ripulitore, be’, avrai tutto il mio consenso».
La ragazza annuì.
Samay si inumidì le labbra e le chiese: «I viaggi nel tempo sono illegali. Sai perché?»
«Certo», rispose la ragazza, prontamente. «Se un individuo A viaggia indietro nel tempo si sposta su un’altra linea temporale – quasi sempre generandone una nuova – dove sono presenti due A».
«L’originale di quella linea temporale e il suo doppio, colui che ha viaggiato indietro nel tempo», completò Samay. «Il compito dei ripulitori è quello di eliminare i doppi».
La ragazza annuì. «Solo che è strano tutto questo. Fisicamente intendo».
«Non farci caso. Non è questo, comunque, il punto. Sai bene che da quanto ti ho appena detto consegue che un ripulitore potrebbe ritrovarsi di fronte al doppio di se stesso».
Betee abbassò lo sguardo. «Già, e tu come…?»
«Il tuo, Betee, l’ho già incontrato».
Lei strabuzzò gli occhi. «Come? Quando?»
«Eri nata soltanto da pochi mesi. Il tuo doppio era di fronte a noi. L’ho capito subito perché nel chip impiantato all’interno della mia testa è scattato l’allarme e mi è stata mostrata l’identità del doppio. Ricordo la sua confusione. Ha balbettato le solite cose che dicono i doppi: “Non è come ti hanno sempre insegnato”, “Lasciami spiegare, ti prego”; cose così. L’ho osservato incantato, comunque. Nonostante tutto, si trattava della mia bambina proveniente dal futuro. Non mi sono mai capacitato del fatto che avesse potuto compiere un’infrazione di quel tipo; ma con le linee temporali alternative e tutto quanto, be’, può succedere di tutto».
«E che hai fatto, dopo?»
«Lei si è girata, spaventata. Ha preso a correre. Le ho sparato».
«È morta?»
«È morta».
Tra i due calò un silenzio imbarazzato, interrotto dall’alba che spuntò tra le montagne in lontananza. Rimasero a osservarla senza dire una parola; poi Samay tirò fuori una pistola.
«Questa apparteneva al doppio denunciato dal signor Aadamee, non so perché l’ho tenuta». Sospirò. «Diavolo, Betee, non so neanche perché io ti stia dicendo queste cose».
In alcune occasioni sentiva come se fosse necessario fare e dire determinate cose. Non era mai riuscito a spiegarselo.
«E questo cos’è?» domandò Betee, afferrando il biglietto da visita del signor Aadamee, che era caduto fuori da una tasca di Samay.
L’agente glielo strappò dalle mani con rapidità. «Niente». Poi le sorrise. «È meglio se ritorniamo. Ci aspetta una colazione coi fiocchi!»

IV

Nel pomeriggio, dopo il lavoro, Samay andò dal signor Aadamee. Non avrebbe voluto, ma era un altro degli avvenimenti che dentro di sé sentiva che avrebbero dovuto prendere luogo necessariamente. Non rimase a rimuginarci troppo su. Arrivò all’indirizzo segnato sul biglietto che il giorno precedente gli aveva consegnato il signor Aadamee e bussò alla porta. Venne ad aprirgli un uomo sui trent’anni, con un tatuaggio sotto l’orecchio identico a quello del signor Aadamee: un serpente che si morde la coda.
Il chip impiantato nella testa di Samay si attivò. L’agente estrasse la pistola e la puntò contro l’uomo. «Sei un doppio del signor Aadamee!»
«Sei venuto ad accogliere il nostro agente senza lo schermo, Aadamee?» disse una terza figura che comparve alle spalle di Samay. Lui si voltò e lo vide. Anziano, calvo e con la barba grigia: era il signor Aadamee che aveva incontrato nel distretto dei ripulitori.
«Non è importante. Conosciamo già tutti quello che sta per accadere» disse, e poi aggiunse, rivolgendosi a Samay: «Non mi ucciderai, agente Samay».
«Vedremo!» Premette il grilletto e la pistola fece cilecca.
«Infatti», sospirò il giovane Aadamee; poi qualcosa colpì con violenza Samay sulla nuca e tutto si oscurò.

Quando riaprì gli occhi, Samay aveva mani e piedi legate. Alla sua destra c’era una sfera fluttuante che emetteva bagliori grigiastri. L’agente la riconobbe: era una macchina del tempo. Di fronte a sé, però, vide con sgomento sua figlia Betee, legata proprio come lui.
«Papà…»
«Mi hai seguito!» esclamò lui, furioso. «Perché?»
«Mi sembrava necessario farlo… Dovevo trovarmi anche io in questo luogo, con te…»
«Ma cosa stai…?»
Qualcuno batté le mani ed entrambi si zittirono. Aadamee giovane fece la sua comparsa. «La tua cara figlioletta sta dicendo cose interessanti». Si avvicinò a entrambi i due prigionieri e si sedette per terra, incrociando le gambe. «Prima di gettarvi in pasto al vostro destino voglio spiegarvi ogni cosa. Come ho sempre fatto con voi due e con tutti gli altri. E come continuerò a fare».
Samay si accorse che nessun allarme era più attivo nella sua testa.
«Te ne sei accorto» convenne Aadamee. «Il tuo allarme scatta quando qualcuno instaura un contatto visivo con il se stesso del passato. Lo schermo di protezione lo aggira senza troppi problemi».
«No! L’allarme scatta quando sono in presenza di un doppio!»
Aadamee ridacchiò. «Questo è quello che vi hanno sempre raccontato. La verità è un’altra. Non esistono linee temporali differenti o cose del genere. Chi viaggia nel tempo si ritrova su un’altra linea temporale? Ma quale assurdità. Il tempo è relativo e scorre in maniera diversa per ogni singolo individuo».
«Cosa intendi dire?» azzardò Betee.
«Intendo dire che raccontano un mucchio di stronzate ai ripulitori per nascondere il fatto che esiste un disegno, dietro tutto quanto. Quando l’ho scoperto e dimostrato, parecchi anni nel futuro, hanno ideato nel passato i ripulitori per fare in modo che nessuno potesse parlare con il se stesso proveniente dal futuro, per non smascherare la menzogna».
«Cos’hai… scoperto?» domandò ancora la ragazza.
«Betee» l’ammonì Samay.
«No, agente, mi piace la curiosità di tua figlia». Si rivolse a lei. «Passato, presente e futuro, mia cara, sono definizioni arbitrarie attribuite dall’uomo a qualcosa che non può neanche lontanamente immaginare. Ognuno di noi vive il suo personale percorso. Qualcuno lo vive in linea retta – e quindi passato, presente e futuro sono esattamente come ve li raccontano –, ma altri sono rinchiusi in percorsi irregolari e, addirittura, qualcuno è intrappolato in un cerchio. Ed è qui, mia cara, che sorge il problema. Tutti i percorsi di tutti gli uomini sono, a loro volta, racchiusi nel percorso dell’umanità. Questo è un cerchio. Affinché l’umanità esista nel passato, dovrà succedere qualcosa nel futuro». Si rivolse a Samay. «Non ci sono doppi, non ci sono linee temporali alternative. Se qualcuno incontra se stesso avviene semplicemente perché nel suo percorso si genera un nodo. S’incastra con se stesso».
«Vorresti farmi credere che tutto quello che facciamo, tutta la nostra intera esistenza…»
«Siamo tutti ingranaggi di un meccanismo che si genera da sé» completò Aadamee. «Anche la nascita dei ripulitori, in qualche modo, è parte di tale meccanismo. Altrimenti saremmo tutti scomparsi da un pezzo».
Comparve nella stanza il vecchio Aadamee. «Bene, ora tocca a voi». Tirò su Betee. Le liberò i piedi e le mani; poi la condusse accanto al globo fluttuante. «Toccalo».
Lei gli rivolse un’occhiata spaventata.
«Betee, non farlo» ingiunse suo padre. «Prendete me, ma liberate lei».
Nessuna risposta. Il vecchio Aadamee si rivolse ancora una volta alla ragazza. «Tocca il globo».
«Vi prego…» implorò Samay.
«Toccalo!»
Betee eseguì e scomparve.
Samay rimase imbambolato, mentre l’altro Aadamee gli liberava i piedi e le mani. Gli fu riconsegnata la pistola.
«Ora tocca a te».
Non appena fu liberato, l’agente puntò la pistola contro il giovane Aadamee. «Maledetti bastardi» inveì. «Dove l’avete mandata?»
«Dovresti chiederci quando l’abbiamo mandata. E finiscila con quella pistola, non funziona così. In ogni caso il tuo destino ti sta aspettando».
Il vecchio Aadamee lo spinse verso il globo fluttuante, che parve catturarlo a sé. Proprio come sua figlia, l’agente Samay scomparve.

BETEE

Si ritrovò in una piazza gremita di persone. Si guardò intorno per scoprire se ci fosse un viso familiare.
«Papà?» domandò, con un filo di voce. Abbassò la testa dopo che qualcuno le rivolse un’occhiata incuriosita. S’incamminò, con la mente piena di domande, e finalmente lo vide. Suo padre si trovava in fondo alla piazza, in compagnia di sua madre. Iniziò a correre nella loro direzione.
«Papà!» lo chiamò. Lui le rivolse un’occhiata confusa; poi Betee vide che sua madre aveva tra le braccia una bambina di pochi mesi. Arrestò la corsa, con una terribile consapevolezza che si faceva largo nella sua mente.
Il volto di suo padre ebbe uno scossone. Era l’allarme che scattava in presenza dei doppi. Betee era, in quel momento, il doppio di se stessa.
«Papà, ti prego. Lasciami spiegare» implorò, con un filo di voce. «Non è come ci hanno sempre insegnato».
Dilatò le palpebre e si portò le mani davanti alla bocca, mentre l’agente Samay estraeva piano la pistola: era proprio come suo padre le aveva raccontato sulla rupe scoscesa!
Presa dal panico si voltò e incominciò a correre nella direzione da cui era arrivata.
«Disperdetevi, tutti quanti!» proruppe tonante la voce di Samay. «È un doppio».
Premette il grilletto e Betee precipitò al suolo, morta sul colpo.

SAMAY

Si ritrovò in un sentiero di montagna, circondato da una fitta vegetazione.
«Betee!» chiamò, a gran voce. «Betee!»
Percorse lo stretto sentiero con la pistola carica in una mano, pronunciando di quando in quando il nome di sua figlia, finché non riconobbe il luogo. A quel punto comprese il significato delle parole dei due Aadamee.
«Oh no…» mormorò, in un soffio.
Si mise a correre finché non raggiunse la rupe scoscesa. Nonostante l’impellenza e l’enormità di quello che stava per accadere, non riuscì a evitare di fissare il sole che tramontava in lontananza, mentre si nascondeva tra le nuvole e le montagne. Il cielo stava assumendo una tetra colorazione rossastra.
Indugiò troppo a lungo; poi diede le spalle a quel panorama e imboccò il sentiero dall’altro lato, con l’intenzione di scendere a valle. Solo quando udì qualcuno sparare nella sua direzione senza colpirlo riconobbe l’enormità dell’errore che aveva compiuto. Era privo dell’attrezzatura notturna, per cui sparò qualche colpo alla cieca in direzione del suo inseguitore e prese a correre.
Ma era troppo tardi. Sapeva cosa sarebbe successo di lì a poco. Conosceva il modo in cui l’altro avrebbe colpito. Saltò per evitare il colpo che avrebbe potuto raggiungerlo di lì a poco, ma fu colpito in pieno al polpaccio sinistro. Con un urlo cadde a terra, rotolando di qualche metro. Perse la presa della pistola.
L’uomo che aveva sparato gli fu subito sopra. Gli iniettò del veleno immobilizzante e gli tirò su la testa per i capelli.
«Sì, sei proprio chi stavo cercando».
Il panico parve impossessarsi di Samay. «Perché… vuoi uccidermi?»
«Dovresti saperlo meglio di me».
Samay ricordava con chiarezza quel dialogo, eppure qualcosa gli impediva di cambiarlo, modificarlo. Teoria del caos, rifletté. Anche un piccolo cambiamento…
L’altro assunse un’espressione di derisione, quando si presentò: «Io sono l’agente Samay ka Majaak»
Il signor Aadamee ha denunciato il mio doppio solo per arrivare a questo?, si domandò Samay, disperato. «Devi ascoltarmi» disse. «Niente è come ti è stato insegnato fino a oggi».
«Io mi sono presentato» disse l’altro, ignorandolo. «Vorresti dirmi il tuo nome?»
«Lasciami spiegare». Strinse i denti. «Ascoltami».
L’altro gli puntò la pistola sulla fronte. «Ti ho fatto una domanda».
Samay chiuse gli occhi per qualche istante. «Davvero vuoi sapere il mio nome?» Deglutì. «Aadamee…»
L’agente Samay ka Majaak premette il grilletto, sistemò la propria pistola e pulì via la polvere dalla divisa.
«Idiota» disse. Si allontanò dal corpo del proprio doppio. C’era un luogo, poco più avanti, che aveva visto di sfuggita mentre era occupato con l’inseguimento. Regalava davvero un bel panorama. Ci avrebbe portato sua figlia lassù, avrebbe dovuto dirlo all’ispettore capo. Avrebbe chiesto il fine settimana libero per portare sua figlia su quella rupe scoscesa. Le sarebbe piaciuto, lo sapeva. Era proprio un bel posto.

V

«Aadamee?»
«Cosa c’è, Aadamee?»
«Ho fatto qualche ricerca. Samay ka Majaak. Un nome insolito, non è vero?»
«Parecchio».
«È hindi. Significa scherzo del tempo».
Il vecchio si grattò la nuca priva di capelli. «È davvero di cattivo gusto».
Il giovane annuì, ma sorrise. «Chissà che scopo ha tutto questo all’interno del grande meccanismo».
«Lo scopriremo, Aadamee. Siamo qui per questo».
«O forse lo abbiamo già scoperto». Il giovane osservò il cielo fuori dalla finestra. «Dipende dall’angolazione da cui osservi».

Pietro dell'Oglio






























giovedì 12 luglio 2018

Le grand ensamble


Mi liscio i pantaloni, mi siedo sulla sabbia. Bevo un sorso d’acqua dalla borraccia. È quasi bollente. Il sole picchia sulla pelle e sento la mia schiena bruciare.
«Non ci hai mai pensato?» dico. «A quanto siamo soli, intendo. Non io e te come noi, ma io e te come singoli, così come tutti gli altri. È difficile da spiegare a parole».
Chiudo gli occhi, inspiro l’aria di mare che una calda brezza sta accompagnando fino a me.
«Fino a che punto una persona può contare per un’altra?» continuo, riaprendo gli occhi. «Quanto grande può essere il sentimento che le lega? Noi cerchiamo l’amicizia e cerchiamo l’amore. E li troviamo quasi sempre, in ogni caso; ma fino a che punto l’amicizia e l’amore sono forti tra le persone? Sì, lo so. In alcuni casi sembra che io voglia solo lamentarmi, ma non è così. Non mi guardare così, ti prego».
Per un attimo il sole smette di bruciarmi la schiena; si tratta di una nuvola solitaria che cattura momentaneamente la mia attenzione, distogliendomi da quel che sto dicendo. Rispunta il sole e io continuo a parlare: «Supponi che una persona A voglia particolarmente bene a un’altra persona B. A e B non possono fare a meno l’una dell’altra, sono felici e vivono la loro vita insieme. Sono amici o amanti, non fa alcuna differenza. Immagina, però, che a un certo punto A muoia. Non è importante perché è una condizione immodificabile: ognuno di noi morirà. A è morta e B è molto triste per questo; ma ci sarà un momento della sua vita in cui andrà avanti. Tutto va avanti. Io e te non siamo niente. Siamo come il mare, guardalo. Tira fuori un po’ d’acqua dal mare e questa verrà subito sostituita. Siamo come la polvere. Puoi soffiarla via da una superficie, ma questo non cambia niente. Ce ne sarà sempre dell’altra a riempire quel vuoto.
«Perché noi siamo completi, amica mia. E ci tengo a precisare ancora che siamo completi non in quanto noi nel senso stretto del termine, ma in quanto io e in quanto te e in quanto tutti. Io sono completo, tu sei completa, tutti sono completi in se stessi. Abbiamo bisogno degli altri per continuare a vivere in modo tale da non sentire ciò che è uno stato di fatto: la solitudine».
Smetto di parlare perché un tremito ha spezzato per un attimo la linearità quasi musicale delle mie parole. Tu non mi dici niente, forse mi guardi. Non so perché ho chiuso gli occhi. Quanto vorrei che piovesse, così la pioggia potrebbe nascondere qualcosa che non voglio mostrarti.
«Immagina qualcuno che si sente incompleto. Immagina come possa soffrire. Esistono persone che davvero non riescono a rimanere da sole. Hanno paura di essere abbandonate da un momento all’altro. Ebbene, per loro la vita è un inferno, perché a un certo punto A muore e B si ritroverà a dover cercare C, che a un certo punto andrà via anche lui. Chi si sente incompleto non soffre per la mancanza di qualcuno, ma per l’assenza in quanto stato d’essere».
Te ne sarai accorta dalle mie parole interrotte di quando in quando dai singhiozzi. Non lo posso più nascondere, anche se chiudo gli occhi. Non potrei nasconderlo neanche se piovesse. Invece il sole continua a picchiare sulla mia schiena. Ti sto parlando e mentre parlo ho il viso rivolto verso il mare, anche se non ho il coraggio di osservare quell’immensa distesa azzurra.
Ho gli occhi chiusi perché non riesco a guardare il cimitero in cui sei sepolta.
Amavamo il mare, ma soprattutto ci piaceva quella canoa che abbiamo comprato l’anno scorso. L’abbiamo chiamata le grand ensamble. Su di essa, al largo, nella cornice di una sera illuminata da una luna calante e decine di migliaia di stelle ci siamo baciati. Le grand ensamble non ci ha mai tradito e quando tu sei caduta e non sei più risalita in superficie, io non mi sono tuffato a cercarti.
A volte mi chiedo perché tu non sia risalita. L’acqua era piatta, il cielo sereno. Io ti stavo aspettando.
«Non hai mai pensato a quanto siamo soli» concludo, aprendo gli occhi. «Perché non lo sei mai stata».
Tu eri, ora non sei più. Non è cambiato niente. Forse mi sto contraddicendo.
Continui a non parlarmi.

Pietro dell'Oglio