mercoledì 11 settembre 2019

Le voci della foresta


Un giorno mi dicesti di non amarmi, perché amandomi avresti rotto quel sottile velo che separa le cose belle da quelle brutte. Io ti risposi con un sorriso, senza aprire la bocca, niente di niente. Oggi vorrei averlo fatto, vorrei guardare il tuo viso per l’ultima volta e rassicurarti che no, non si rompe niente, ti amo e posso dirtelo ancora e ancora, finché non ti stancherai di me, finché non mi stancherò di te. Succede, a gente come noi, ma tu non volevi che finisse e quindi non hai mai fatto iniziare niente. Non ho insistito e ora lo rimpiango, ora che non potrà mai più cominciare.
Quando siamo arrivati su questo pianeta magnifico – noto come Agàpis – con gli alberi che ripetono incessantemente frasi nelle più svariate lingue dell’universo, con le radici che crescono verso l’alto e con le foglie grosse, tozze, che ricordano vagamente dei pomodori, questo pianeta con le praterie che sono distese infinite di lunghi steli d’erba dalla consistenza dell’acqua e mari che altro non sono se non immensi pozzi di polvere colorata che si muove, libra, incanta, in questo pianeta, per la prima volta, ci siamo sentiti a casa. Perché siamo due studiosi, io e te, e mentre tu sei andata alla ricerca delle più bizzarre forme di fauna per studiarne la biologia, il mio interesse principale era quello di provare a capire la lingua e il modo di esprimere il linguaggio degli agàpestri, il popolo che abita questo pianeta.
Giorno dopo giorno mi hai parlato di quelle specie così simili alle volpi del nostro pianeta, ma con il pelo azzurro, con la capacità di saltare volteggiando nell’aria, lasciandosi dietro una scia simile alla schiuma del mare che s’infrange sugli scogli; mi hai raccontato di canidi con sei zampe, privi di denti, e con una folta criniera arancione, creature talmente buffe che non siamo riusciti a smettere di ridere per tutto il resto della serata; mi hai mostrato gli ologrammi di enormi bestie dall’aspetto celestiale, alti più di due metri, impressionanti ma al contempo idioti come il più stupido dei koala.
Ogni sera sei tornata a casa con qualche informazione in più, pezzetto dopo pezzetto hai iniziato a lavorare sul puzzle di questo nuovo ecosistema. Sono sempre stato orgoglioso, di te, lo sai bene. Posso dirtelo adesso, posso essere sincero fino in fondo. Ero contento dei tuoi progressi, ma t’invidiavo, perché io non riuscivo a concludere nulla. Per giorni, mesi… anni, non sono riuscito a comprendere la lingua degli agàpestri.
Il loro modo di articolare le parole e il suono che emettono quelle labbra grigie è del tutto identico al nostro. All’inizio non riuscivo, però, ad afferrare le parole, le varie sequenze di suoni non mi erano chiare, e per un momento ho avuto la strana sensazione che lo facessero apposta, che non volessero che qualcuno come me capisse cosa si dicessero; ma io ero determinato a comprendere i loro discorsi più di ogni altra cosa e hanno afferrato la mia determinazione perché, a un certo punto, ho capito.
È esattamente come avevo pensato. Se loro vogliono escludere dai loro discorsi qualcuno che non è un agàpestre, possono farlo anche solo volendo. E lo fanno per una semplice ragione. La loro lingua, per chiunque altro che non sia un agàpestre, funziona come un cancro. Me l’hanno detto loro, nella loro lingua. Gli alberi, hanno aggiunto, comprendono tutte le lingue dell’universo, e ripetono ciò che gli si dice. Quando io e te siamo arrivati su questo pianeta, la prima cosa che abbiamo notato è stata quella foresta in cui ci è sembrato che gli alberi dicessero cose incomprensibili. Si tratta di messaggi delle popolazioni che sono giunte sin qui: «non parlate con gli agàpestri», dicono le voci degli alberi, «non provateci nemmeno». È in questo, però, ho deciso di distinguermi. Ho completato questa registrazione perché tu possa trasmetterla, ma c’è qualcosa per te e solo per te, tra le voci della foresta.

Mi dispiace,
Max

*

Greta ascoltò la registrazione senza respirare. È uno scherzo, si disse. È un dannatissimo scherzo. Per cui posò con finta calma il registratore sul tavolino del suo studio, nella nave. Tornerà, si ripeteva. Voleva convincersi che fosse davvero così. Non ha senso, non ha proprio alcun senso, come può una lingua rivelarsi mortale?
Non può, per davvero.
Si catapultò fuori dalla nave e corse senza mai fermarsi verso la foresta. Fu accolta dalle centinaia, se non migliaia di sussurri e mormorii provenienti da chissà dove all’interno di quegli alberi così strani che, in quel momento, le parvero raccapriccianti.
È un cimitero? È un diavolo di stramaledetto cimitero?
Tra le fredde, distanti, voci appartenute a linguisti provenienti da tutti gli angoli dell’universo, l’unica che la fece sussultare proveniva da più di un albero. Al centro esatto c’era il corpo di Max privo di sensi.
«Non ti preoccupare» sussurrò un albero, con la dolcezza della sua voce. «Non si rompe niente» continuò l’albero alle sue spalle. «Ti amo e posso dirtelo ancora e ancora». E poi: «finché non ti stancherai di me, finché non mi stancherò di te».   
Tutta la foresta si zittì per pochi istanti, e quando Greta scivolò in lacrime tra le braccia dell’amato, gli alberi piansero insieme a lei.

Pietro dell'Oglio

martedì 6 agosto 2019

Pensieri di una persona qualunque

Sono una persona qualunque, vivo in un paese qualunque. Sono fortunato a essere nato da questa parte del mondo, dicono: non ci sono guerre e tutto va benissimo. Non sono ricco, ma i miei genitori possono permettersi di pagarmi l’università. Sono appena uscito dal dipartimento, ho sostenuto un esame molto impegnativo. Il professore era bravo, mi ha spronato a fare sempre meglio. Non mi ha dato il massimo ma sono contento così. 
Fa caldo, troppo. Al sole l’aria è rovente e all’ombra tira una brezza calda e puzzolente; ma io sono allegro, sento di poter sopportare qualsiasi cosa e vincere tutto. Prendo il telefono e mando un messaggio alla mia ragazza: «Andato! Tutto bene, stasera ci vediamo!»
Chiudo il telefono e continuo a camminare verso casa. Ho la maglietta tutta bagnata, non vedo l’ora di farmi una doccia fredda. Riprendo il telefono per controllare se ci sono risposte, poi mi ricordo. Chiamo mia madre e le dico che ho superato l’esame, sto per tornare a casa.
Sto attraversando la strada per poi imboccare la via che mi porterà a casa, quando all’improvviso tutto si ribalta. Sento un rumore sordo e un dolore che non avevo mai provato. Mi sento spintonato, ma non riesco ancora a capire cosa sta succedendo. Sono disteso sull’asfalto e un uomo sta scendendo da una macchina. Sta venendo verso di me, gridando aiuto, chiedendo soccorso. Lo vedo distrattamente, e ancor più distrattamente sento un rivolo caldo sotto di me.
La vista mi si appanna. Voglio chiedere all’uomo che mi sta accanto di dire alla mia ragazza che potrei fare un po’ di ritardo, stasera. Avvisa anche i miei genitori. Ho bisogno che qualcuno mi accompagni a casa, da solo non ce la faccio.
A un tratto non fa più caldo. La doccia non mi serve più: sento freddo. Forse stasera non ci sarò. Diteglielo, ve ne prego. Non riesco più a parlare.
Sono uno qualunque, vivo in un paese qualunque. Sono fortunato a essere nato da questa parte del mondo, dicono; ma così, come se niente fosse, dimenticato, anonimo, le mie ambizioni si sono rotte, i sogni sono caduti e non posso più raggiungerli. Non ho fatto niente, non ho lasciato nient’altro di me. Presto sparirà anche il ricordo.


Pietro dell'Oglio

mercoledì 10 aprile 2019

Il fiume delle anime incastrate


Era una donna di media statura. Indossava due orecchini che cadevano in una lunga catenina d’oro fin sotto le spalle e terminavano in due sfere rosse. Tintinnarono sul quel corpo magro mentre il silenzio della notte era interrotto dal rumore dei suoi passi. Si arrestò a metà del ponte Solferino, come se si fosse ricordata qualcosa di molto importante. Osservò la superficie scura del fiume in direzione delle montagne. Chiuse gli occhi e respirò l’aria fetida che proveniva da sotto.
Un uomo sulla cinquantina, in completo elegante e con una tracolla su una spalla, stava passando di lì proprio in quel momento. Vide la donna e una strana sensazione lo costrinse ad affrettare il passo. Non sapeva bene perché, ma temeva che si girasse e gli rivolgesse la parola.
«Non essere sconsiderato» disse la donna, senza voltarsi.
Un’auto sfrecciò a tutta velocità e l’uomo la osservò correre, augurandosi che non si schiantasse contro niente e nessuno; quindi attraversò la strada e si avvicinò alla donna.
«Non volevo offenderla, signora» disse. «Ho solo paura».
«Non sei l’unico. Sono in molti a temere. Sono in molti a vivere male per questo».
L’uomo ridacchiò nervoso. «Mi piace il modo in cui vivo, il lavoro che faccio».
«Non c’è alcun dubbio a riguardo». La donna finalmente si volse a guardarlo. Occhi rossi dalle iridi sottilissime luccicavano nella notte densa. Un tanfo di putrefazione aleggiò su entrambe le figure per qualche istante; poi la donna sorrise in un gesto rassicurante. «Quel che dirò non è dubitare ciò che hai vissuto».
«E che cos’è, allora?»
«Tua moglie? L’ami?»
L’uomo sbatté le palpebre più e più volte. «Non è questo dubitare?»
La donna fece cenno di no con la testa, e i lunghi orecchini ondeggiarono e tintinnarono emettendo scintille. «Domando risposte, non dubito di te».
«Sì» disse l’uomo in un sospiro. «L’amo, ma l’ho amata di più tanti anni fa».
«Il fuoco si estingue, se prima o dopo poco importa». Volse la testa ancora una volta in direzione del fiume e scrutò a fondo le sue acque.
L’uomo, invece, riprese a fissare la strada da cui era venuto, sconsolato. «L’amo ancora, nonostante tutto. Sono forse uno stolto?»
«Sì».
Dall’altro lato del ponte vide l’immagine di se stesso, poco prima di aver attraversato la strada per raggiungere la donna dagli occhi rosso fuoco. Mentre lo stava facendo, una macchina era sfrecciata a una velocità sostenuta e lo aveva investito in pieno. Era risuonato un crack distorto dal rombo del motore che non aveva accennato a spegnersi. La macchina aveva proseguito la sua corsa senza rallentare.
La donna non cambiò direzione dello sguardo «Hai accettato la tua sorte?»
«Forse».
«Conosci il mio nome?»
«Morte, sei la mia Morte».
«La Morte non è Speranza. La morte non dubita».
L’uomo sospirò. «Sono stato investito da quell’auto mentre attraversavo la strada. Proprio qui, sul ponte Solferino. Sotto il cielo di Pisa, pochi metri sopra l’Arno».
«L’Arno» gli fece eco la donna. «È un fiume di anime incastrate». E aggiunse: «Come la tua».
L’uomo le si rivolse sperando in un nuovo incrocio di sguardi. «La mia anima è incastrata?»
Ancora un tanfo di putrefazione aleggiò intorno a loro. Questa volta assunse la forma di braccia tentacolari che avvolsero l’uomo con delicatezza.
«L’anima non è nient’altro che te stesso» seguitò la donna. «Io sono qualcosa che ne è al di fuori. Siete creature molto strane. Tra di voi dite di essere egoisti, malvagi, con un cuore di pietra. Non sai quante anime come te sono incastrate nel fiume».
L’uomo provò invano a fare resistenza, ma le braccia tentacolari – umide, dense e puzzolenti – non allentarono la presa. «Ti prego, dammi un’altra possibilità» piagnucolò. «Solo un’altra».
Lei si avvicinò e gli accarezzò una guancia. «Non ti è concessa» disse, e il suo tono parve rompersi dal dispiacere. L’uomo fu trascinato sotto la superficie delle acque dell’Arno, in quel fiume delle anime incastrate, e fu incastrato lui stesso per l’eternità. È una pena che s’è scelto, ragionò la donna, e il suo unico peccato è stato quello di amare incondizionatamente, e a senso unico, la sua donna. È incastrato dalla consapevolezza che anche sua moglie è morta in quella notte scura. Lui in solitudine, investito da un’auto. Lei insieme all’amante che s’era portata in macchina, ubriaca, in un incidente d’auto, dopo aver privato il marito della vita. I tre s’erano incastrati, e da quel momento e per l’eternità avrebbero vissuto la morte nelle acque del fiume senza mai poter risalire in superficie, perennemente privati del fiato. L’istinto avrebbe voluto portarli verso l’alto, in cerca d’ossigeno, e la donna dagli occhi rossi e i lunghi orecchini a catenella non glielo avrebbe mai permesso. Perché s’erano incastrati vicendevolmente. Lei e il suo amante, figure spregevoli, erano state punite per la loro cattiveria dettata dall’amore; lui, invece, uomo buono, onesto, sempre gentile, era stato punito ingiustamente perché anche se era a conoscenza di essere incastrato con la moglie, vi era rimasto con consapevolezza. Contro ogni logica, fuori da ogni dubbio, con una forza tale da far vacillare la vita e la morte sin dalle loro fondamenta, amava quella donna spregevole che era stata sua moglie. L’amava senza nessuna condizione e l’avrebbe amata per tutta l’eternità, lì, nel fiume delle anime incastrate, incastrato insieme lei.

PIETRO DELL'OGLIO