mercoledì 5 dicembre 2018

Il diavolo di Angelica



I



Angelica è una ragazza come tante. Chi l’ha conosciuta sa bene che con lei non bisogna indossare alcuna maschera. Non si offende per una battuta particolarmente pungente, né manifesta comportamenti schizzinosi se per caso a qualcuno scappa qualche volgarità. È un po’ un maschiaccio, in realtà, e di volgarità ne dice lei stessa, però poi ride, vibrando note cristalline del suo apparato vocalico. Angelica è una ragazza ribelle ed è impossibile descriverla usando parole diverse. Le piace cantare ed è molto brava in questo. Canta soprattutto pop latino e rap. Quest’ultimo l’appassiona particolarmente, così come ama leggere, scrivere (e cantare!) le rime, che possono far parte di canzoni o anche di vere e proprie poesie. Le piacciono le lettere, dunque, ma senza la prosa.
Ho detto che Angelica canta molto bene, ed è vero, ma balla anche meglio! Se tu e lei siete abbastanza in confidenza, basta tirare fuori uno smartphone, far partire un flamenco ed ecco che ti porta con sé nel suo mondo fatto di onde e colori.
E a proposito di colori, se li adora! Indossa ogni giorno una felpa o una maglietta di un colore differente. Sfortunatamente, la sua felpa preferita è di una bruttissima sfumatura di rosa pastello. Non dovrei giudicare, ma di tutti i bellissimi colori di cui si veste, be’, quello è di certo il peggiore. Ciononostante, a lei piace, e io non posso fare a meno di apprezzare la sua anima così variegata in un mondo che ha un disperato bisogno di colore.
Anche i suoi capelli sono colorati. Al momento li porta corti e arancioni. La sua testa somiglia a un enorme mandarino. Sono consapevole che si tratta di una similitudine un po’ povera, ma è esattamente la prima cosa che mi viene in mente se la osservo. È un mandarino.
I genitori di Angelica non sono particolarmente contenti della loro bambina. Quando ha compiuto diciannove anni, affermano, ha iniziato a manifestare comportamenti immaturi e poco adeguati all’educazione che le è stata impartita. Adesso che ha ventitré anni, i suoi genitori non sembrano volerle bene più come una volta.
«Non è più la nostra cara bambina...» dice la mamma di Angelica, un donnone grande quanto un armadio e più duro del cemento armato. «Quei suoi modi di fare, quelle sue amicizie…»
Suo marito riempie di tabacco la pipa, mentre annuisce poco convinto a qualcosa che non ha neanche udito distintamente. «Già, le amicizie».
«Quei ragazzi l’hanno allontanata da noi, l’hanno allontanata dal Signore!».
Si trovano entrambi in cucina. Lei sta asciugando convulsamente un piatto mentre parla. Dopo aver cenato, Angelica è volata in camera sua. Ha litigato per l’ennesima volta con entrambi.
«Il Signore, sì» conviene l’uomo, intento a spolverare con un dito il bordo della pipa.
La donna, invece, continua ad asciugare lo stesso piatto, con sempre maggior disinvoltura. «Dobbiamo fare qualcosa. Sono anni che prego che il Signore la faccia tornare quella di un tempo. Dietro Suo consiglio, credo che la nostra piccola bambina abbia intrapreso la strada sbagliata da quando, quattro anni fa, quella sua amica, quella ragazza…»
«La strada sbagliata, sì» ripete l’uomo.
La donna smette di asciugare il piatto e lo poggia con composta violenza nel lavandino. «Ma Antonio! Mi stai ascoltando o no?»
Colto alla sprovvista, Antonio si rizza sulla sedia e annuisce con vigore. «Ma certo, certo che sì, cara!»
La donna gli manda un’occhiata di fuoco, sbuffa e poi ritorna alle sue faccende.
Nel frattempo, Angelica, sdraiata supina sul suo letto, ha udito soltanto l’ultimo richiamo all’attenzione di sua madre nei confronti di suo padre. Sa che stanno parlando di lei. O meglio, sa che sua madre si sta lamentando del suo atteggiamento nei confronti della Santa Chiesa e di tutte quelle sciocchezze.
Ah! Per mio conto. Voglio scusarmi se tu che stai leggendo credi in Dio o pratichi qualche tipo di religione. Non è mia intenzione offendere il credo altrui; però, la mia opinione personalissima è che anche se ritieni che la tua verità sia l’unica vera, ciò non toglie che il tuo prossimo possa non pensarla esattamente come te.
Non dogmatizzate qualsiasi cosa!
E se ho usato (e userò, oh cielo se lo farò) toni un po’ coloriti a riguardo, be’, non posso farci molto. È questo che sono.
Ma ritorniamo alla nostra dolce, meravigliosa e in questo momento un po’ malinconica fanciulla. Angelica sta fissando il soffitto della sua camera, immaginando che sia un cielo stellato. Allunga un braccio in direzione dello stesso nel tentativo di afferrare quante più stelle possibile. Ogni singola stella è qualcosa che sua madre detesta e che suo padre ignora. Tutti quegli astri, però, sono zone luminose sul suo volto, all’interno della sua testa – la sua mente – e nel profondo del suo cuore – l’amore con cui ha stretto un patto di eternità.
Si gira su un fianco e controlla che ora è sull’orologio poggiato sul suo comodino: è un orribile marchingegno a forma di unicorno che galoppa su di un arcobaleno brillantinato. È qualcosa di sdolcinato da far salire il vomito, lei stessa la pensa quasi come me; però è anche il ricordo più concreto di una persona a lei molto cara.
Sono le dieci di sera.
Si alza di scatto, s’infila un giaccone e una sciarpa e varca la soglia della sua camera.
Mentre esce di casa s’infila le cuffie nelle orecchie per evitare di sentire i rimproveri di sua madre. Una volta fuori, inala a pieni polmoni l’aria gelida di dicembre.
Angelica vive in un comune pugliese molto evocativo. Trani è una città che si trova qualche chilometro a nord di Bari e la sua particolarità è quella di avere una splendida cattedrale romanica affacciata sul mare.
Nonostante non creda in Dio, men che meno in qualsiasi forma di religione, Angelica è diretta proprio verso la cattedrale.
Deve percorrere alcune strade appartate e poco illuminate, se non di quando in quando dalle decorazioni natalizie di alcuni negozietti, prima di giungere in Piazza Duomo. La cattedrale è di fronte a lei, con la facciata che, debolmente illuminata dalla luna, sembra assumere un particolare colorito rosaceo.
Le piace quella piazza, ma non si è diretta lì solo per godere di quella vista. Senza fermarsi continua a muoversi. Poco più avanti c’è un basso muretto dove potersi sedere, poi gli scogli che pendono direttamente sul mare. Lei supera con agilità il muretto e si muove decisa saltando da uno scoglio all’altro. Raggiunge una piccola insenatura nascosta da un sasso non particolarmente pesante ma neanche così leggero da venire rimosso per sbaglio da qualche passante. Tira su quel sasso ed estrae dall’insenatura una fotografia.
La fotografia, sporca, strappata e scolorita in più punti, ritrae una ragazza, ferma nell’attimo del suo sorriso più bello, come direbbe Angelica. Quella ragazza si chiama Elena. Nella fotografia sembra poco più giovane di Angelica. Ha due occhi verdi che sembrano concordare con un paio di orecchini ovali della stessa sfumatura. Ed è stata proprio Angelica, quattro anni prima, a regalarglieli. Il naso è piccolo, un po’ adunco, e le labbra sono due lune sottili. Tutto questo è avvolto dalla cornice dei lunghi capelli castani, che scendono ben oltre le sue spalle ma si fermano sulla fronte, con una frangia perfettamente geometrica. Lo sfondo è composto dalle luci e dai colori sfumati di una discoteca.
Angelica sfiora con due dita quella foto, mentre ripensa alla giornata (alla splendida, meravigliosa, irripetibile giornata!) in cui quella foto è stata scattata.
A questo punto della storia intervengo io. Perché, caro lettore, ho visto nel suo sguardo qualcosa che vedo in molti pochi esseri umani, ma ho percepito nel suo rimorso una perdita universalmente riconosciuta. Come sempre, quando appaio, faccio in modo che nessuno, eccezion fatta di colui (o colei!) a cui voglio presentarmi, mi veda. Quando appaio alle spalle di Angelica, in Piazza Duomo non c’è anima viva, a parte noi due, ben inteso.
«Mia cara Angelica» esordisco.
Lei si volta di scatto nella mia direzione perché (non posso biasimarla per questo!) non si è certamente accorta che qualcuno le si è avvicinato. Appena mi vede reagisce come reagiscono tutti: sgrana gli occhi e lancia uno strillo. Mentre lo fa indietreggia in un meccanismo di difesa umano e istintivo, ma perde l’equilibrio e inciampa. Quando prova a tenersi su, la fotografia di Elena le sfugge di mano e vola oltre gli scogli, verso il mare.
Sospirando, schiocco le dita di una mano e la foto, librando nell’aria, torna accanto alla sua proprietaria. Angelica osserva la scena pietrificata e sembra non riuscire a muovere un muscolo.
«Mia cara, dolce bambina» dico. «Non aver paura di me».
Finalmente, forse udendo il tono basso e rassicurante della mia voce, Angelica riesce a deglutire e a dare alito alle sue parole. «Ma… tu sei… Sembri…»
Sorrido. Estendo il piede destro dietro il sinistro, porto l’avambraccio destro sotto il petto e m’inchino, allargando con eleganza il braccio sinistro. «Il diavolo, in persona». Rido nel vedere l’espressione stampata sul suo volto. «Ma non è come credi. Non è come dicono tutti».
«Ma hai le corna… la coda… Il tuo corpo è...»
«Fuoco vivo, sì» convengo. «Ma, come ti ho già anticipato, non è come dicono tutti». Sta riprendendo un po’ di colore. «Tu, cara Angelica, sei molto più simile a me di quanto non credi. E non c’entra niente ciò che dice tua madre. ‘Quella ragazza ha smarrito la strada del Signore!’, ‘Quei ragazzi l’hanno allontanata da Dio!’, ‘Il diavolo l’ha presa in simpatia’… Oh, forse quest’ultima affermazione è decisamente vera».
Angelica ride. Sento che lei stessa non ne comprende il motivo. «Ma perché sei qui?» domanda, una volta ritornata seria. «Com’è possibile?» Afferra la fotografia di Elena. «Perché hai fatto in modo che non cadesse in mare?»
Faccio un cenno con le mani, per intimarle di calmarsi. «Non posso rispondere a così tante domande. In particolare, la seconda è priva d’interesse. Risponderò alla prima: sono qui perché ti ho preso in simpatia. E risponderò alla seconda: ho salvato la fotografia perché, be’, è colpa mia se ti è sfuggita».
«Ma...»
«Basta, mia cara, con le domande. Volevo dirti una cosa che ho notato. Quella fotografia – la ragazza ritratta in quella fotografia – provoca in te un rimpianto che solo l’amore che provi per quella persona può colmare».
«Sei davvero il diavolo?» domanda, arrossendo.
Sorrido per la sua ingenuità. «Chi mi ha dipinto in una certa maniera l’ha fatto perché crede che io sia la faccia scura della luna, l’ombra che copre la luce. Invece, io sono semplicemente quel po’ di anarchia che il mondo necessità. Non sono nero, come contrapposto al bianco. Io sono proprio come te, tanti colori».
«Tanti colori...» mi fa eco lei. Si tira in piedi, sempre stringendo la fotografia. «Hai ragione. Elena… Un rimpianto mi lega a questa fotografia. È colpa di mia mamma! Anche un po’ mia, sì… Però se non fosse stato per lei, per quel suo modo di pensare così bigotto… Ecco, avrei…»
«Avresti dichiarato i tuoi sentimenti a quella ragazza, ma ormai non puoi più farlo perché…»
«Perché Elena è morta» afferma. «Proprio qui, circa quattro anni fa. Il giorno in cui le regalai quegli orecchini che le piacquero così tanto, il giorno del suo diciannovesimo compleanno, il giorno in cui le ho scattato questa foto, questa meravigliosa, insostituibile fotografia…»
Non piange. Sembra non avere più lacrime da versare, da troppo tempo.
Annuisco, comprensivo. «Lo sai, cara Angelica, cara bambina… è così facile…»
Schiocco le dita e per adesso mi faccio da parte. Schiocco ancora una volta le dita, questa volta con entrambe le mani, e la musica irrompe nell’aria. Le luci nella discoteca sono come fuochi d’artificio nella notte quando in città tutti i lampioni sono spenti. I ragazzi e le ragazze sembrano ballare e strillare come se si muovessero in uno spazio discreto anziché continuo.
Angelica ride e sogna e canta e balla. I suoi capelli sono corti ma ancora del loro colore castano naturale. Accanto a lei, Elena  si muove in quell’ambiente con una leggera, ma accattivante goffaggine. I suoi orecchini verdi ruotano come eliche. Le due ragazze, schiena contro schiena si sfiorano e ballano. E cantano. E urlano a squarciagola.
È il giorno del diciannovesimo compleanno di Elena.

II

La musica è martellante, ma a loro piace così. Si scatenano come non hanno mai fatto prima. Insieme a decine di altre persone, si muovono in quella stanza, ma ai loro occhi è proprio la stanza a muoversi, a vibrare: con le sue pareti distanti, con il soffitto alto come l’apoteosi di tutte le altitudini e con l’oscurità accesa di luci e di colori accecanti ma bellissimi, l’intera realtà è circoscritta in quella discoteca e quella discoteca è l’unica realtà che conta per quelle due ragazze che non hanno la minima idea di cosa il futuro le riserverà. Quel che importa davvero è ballare e vivere quel che si può vedere, e Angelica ha sempre pensato che ballare è vivere ciò che si può vedere (e solo quello, niente di più!).
Un brano si arresta all’improvviso per poi venire seguito subito dal successivo, che è una nuova martellata di energia. Un’accozzaglia di tecno e dance che ad Angelica sembra il più suggestivo dei ritmi tribali; poi, come d’incanto, l’oscurità della discoteca sembra sciogliersi in colori più tendenti al pastello. Si ferma e vede intorno a sé l’oceano di persona che continua a ondeggiare. Elena è un tutt’uno con loro, proprio come lo è stata anche lei fino a qualche istante fa. Elena danza con gli occhi chiusi, come in un’estasi di beatitudine.
Ridacchiando, Angelica tira fuori da una tasca il suo smartphone e lo mette in modalità fotocamera.
«Elena!» la chiama, ma il fragore è troppo forte. «Elena!» ripete.
La ragazza alza lentamente le palpebre, mostrando al mondo le sue lune verdi incastonate all’altezza degli occhi. Ride mentre l’amica le scatta all’improvviso una fotografia.
«Per immortalare questo momento» dice Angelica con il labiale. Elena la spinge via divertita e riprende a ballare.
Angelica osserva quella ragazza. È decisamente brilla e non pienamente cosciente di se stessa; però, nonostante tutto, ritiene che sia giunto il momento di portarla in quel luogo speciale che, caro lettore, temo tu abbia già intuito quale sia.
«Elena!» la chiama nuovamente. Si avvicina a lei e le afferra una mano. «Vieni!»
Non oppone resistenza e Angelica la trascina con sé fuori dalla discoteca. Respirano l’aria gelida di dicembre e ben presto raggiungono Piazza Duomo.

*

«Ma io non riesco a capire...» mi sta dicendo Angelica. «Non capisco perché mi stai facendo vedere tutto questo».
Vedo che stringe con entrambe le mani la fotografia di Elena e nei suoi occhi scorgo una nostalgia che mi addolora. «Non ti sto mostrando niente, cara bambina. Tu stai vivendo la notte del tuo rimpianto» le dico.
Dilatando le palpebre, forse cieca di una strana consapevolezza, mi domanda: «Mi stai dicendo che è possibile cambiare qualcosa che è già successo?»
«No» scuoto la testa con tutta la dolcezza possibile. «Sarebbe una catastrofe».
«E allora per quale ragione vuoi che io veda questo inferno?» strilla, senza più riuscire a trattenersi.
Il mio tono si fa più duro e lei sembra intimorirsi. «Non pensavo tu fossi così vigliacca, cara bambina, cara Angelica. Tu stai vivendo la notte del tuo rimpianto perché solo in questo modo potrai riviverla ancora, senza alcun rimpianto».
«No...» dice in un sussurro, capendo che sto per schioccare le dita delle mie mani. «Non voglio...» È sveglia, Angelica. Ha capito che qualcosa sta per succedere. La spaventa, ed è bene che sia così. Dopotutto è umana.
«Sarà doloroso, ma gratificante» dico.

*

Angelica salta con agilità il muretto e poi aiuta Elena a fare la stessa cosa. Sta ridendo e Angelica adora quando lo fa. Iniziano a saltellare da uno scoglio all’altro, immaginando di trovarsi in una grande discoteca che si affaccia direttamente sul mare; finché Elena non ha un giramento di testa che la fa barcollare.
«Ehi, stai bene?» le domanda Angelica.
L’altra inspira a fondo e poi espira. «Mi viene da vomitare. Non avrei dovuto bere così tanto».
«Mi dispiace» si scusa Angelica. «Forse portarti qui non è stata una buona idea…»
Elena sorride. «No, no… Ora mi siedo un attimo».
Si siedono l’una accanto all’altra, in uno scoglio che dà direttamente sul mare. Sono parecchio in alto.
«Sai, Angelica, mi piacerebbe tuffarmi» dice Elena dopo un po’.
«Ti senti un po’ meglio?» domanda l’altra, a sua volta.
«Diciamo».
Angelica sospira. «In che senso ti piacerebbe tuffarti?»
Elena inspira ed espira. «In acqua» risponde. «Con te».
Ha gli occhi chiusi. Angelica pensa che forse è per via dei giramenti di testa e non dice niente; però vorrebbe entrare nella sua mente e sapere cosa sta pensando.
Elena sta facendo ondeggiare piano la testa, quasi impercettibilmente, quasi a ritmo di una musica inudibile.
Questo momento, Angelica l’ha atteso, immaginato e vissuto parecchie volte, ma non si sente ancora pronta. È intenzionata ad avvicinare il proprio volto a quello di Elena, a condividere con lei le stelle del cielo che avrebbe raccolto dal soffitto della sua stanza, quattro anni dopo.
Invece la figura di sua madre risalta ingombrante dentro di sé. Una volta, ha sentito che discuteva con suo padre di un caso di omosessualità utilizzando toni che l’hanno fatta sprofondare nello sconforto.
Che cosa avrebbe detto di lei?
Che cosa avrebbe pensato di lei?
In quale modo l’avrebbe giudicata?
In che modo l’avrebbe derisa?
Che cosa avrebbe diffuso?
Chi sarebbe stata per lei?
Elena riapre gli occhi e li rivolge nella direzione di Angelica. «Balliamo!» Ride e le afferra un braccio, tirandola su con sé. Mentre lei salta e balla (o qualcosa di simile!) tra uno scoglio e l’altro, Angelica rimane immobile a osservarla.
È ancora ferma quando Elena si china in avanti perché evidentemente non si sente ancora bene. Si ritrova pietrificata quando, invece, un giramento di testa forse più forte dei precedenti le fa perdere l’equilibrio.
Elena non vede più nulla. Angelica sente il suo grido interrotto da uno schianto violento che le provoca un brivido gelido lungo la spina dorsale. L’ultimo rumore che sente, prima di pronunciare debolmente il nome di Elena, è quello del mare mentre richiama a sé quel corpo che le è appena stato precluso per sempre.
«No» prova a dire, senza però emettere alcun fiato. «No» ripete, e questa volta riesce ad articolare un suono percettibile. «No!» urla, e adesso i due suoni sono chiaramente distinguibili: n-o. La loro somma contiene la negazione di una realtà terribile, una realtà che s’impone come l’acqua che s’infrange sugli scogli, erodendo e scavando un rimpianto.
Forse riesce in qualche modo a sentirmi mentre faccio schioccare le dita di entrambe le mie mani, perché sbatte le palpebre più e più volte, come se si trovasse in uno stato d’improvvisa e inspiegabile confusione.
«No» dice, quasi proseguendo un evento che non si è ancora verificato.
Elena le rivolge un’occhiata stupita. «Come?»
«No» ripete Angelica, con più convinzione. «Ho detto no, voglio che tu lo apra adesso, non dopo».
Si trovano nella stanza di Angelica ed Elena sta stringendo un pacchetto piccolo con su scritto ‘Auguri Elena’ e con un fiocco rosso a decorarne il lato superiore.
Angelica sorride. Si trovano nella sua stanza, in casa sua. I suoi genitori sono in cucina a discutere di qualche sciocchezza. «Dai, aprilo!»
È il giorno del diciannovesimo compleanno di Elena.

III

«Non farti pregare, dai, aprilo!» insiste Angelica.
Elena finge un’espressione imbronciata. «D’accordo». Scarta il suo regalo con curiosità. Scopre una piccola scatoletta scura che contiene due orecchini verdi.
L’espressione di Elena completa la festiva soddisfazione apparsa sul volto di Angelica. «Lo sapevo, lo sapevo!»
L’altra stringe con entrambe le mani quegli oggetti così piccoli e speciali. «Voglio indossarli».
«Adesso?»
«Adesso!»
Elena manifesta l’intenzione di alzarsi e di spostarsi verso lo specchio, ma Angelica la ferma: «No! Guarderai la tua immagine solo dopo averli indossati». Glieli sfila dalle mani e, mio caro lettore, prova a immaginare, prova a riempire tutti i buchi. Prova a disegnare la gioia negli occhi di entrambe, quando Elena finalmente si specchia. Dopo aver contemplato quell’immagine, Angelica sfiora con il proprio sguardo l’orrendo orologio a forma di unicorno sul suo comodino. Ricorda che anche lei, tanti anni prima, ha avuto quello sguardo. Poi gli occhi dell’una e dell’altra s’incrociano. Sanno che si divertiranno. E lo faranno. L’uscita con gli amici e la cena, la trasgressione in discoteca e, infine, l’una che afferra la mano dell’altra nella notte di un dicembre particolarmente freddo. Su quegli scogli che danno sul mare, dietro di loro la splendida cattedrale dalle tinte impercettibilmente rosate è il simbolo di un rimorso.
Questo è il momento in cui Elena è persa in un’estasi di beatitudine, nonostante il malessere fisico. È il momento in cui Angelica sta per avvicinare il proprio volto a quello di Elena ma è improvvisamente bloccata dagli invisibili imperativi di una madre che non l’ha mai compresa fino in fondo. E, dopotutto, lei stessa non ha provato a farsi capire. Perché ha sempre covato dentro di sé il timore di ricevere una risposta a tutte quelle domande che ragionando anche solo poco sull’umanità e sull’amore appaiono prive di argomenti.  
Che cosa avrebbe detto di lei?
Che cosa avrebbe pensato di lei?
In quale modo…
Non ho schioccato le dita delle mie mani. Angelica sembra vivere un istantaneo stato di confusione. Sente quasi di aver già vissuto quel momento, in qualche modo. Elena sta per riaprire gli occhi ma prima che questo avvenga, Angelica esclama: «Al diavolo!» (e io faccio di tutto per non sentirmi offeso!).
Le labbra delle due ragazze si toccano e qualcuno scatta una fotografia, ma a loro non sembra interessare; poi Elena e Angelica riprendono a ballare e lo fanno fino alla fine.

*

Angelica riapre gli occhi. Si trova sugli scogli dietro Piazza Duomo, da sola. Alla sua sinistra c’è il mare, lì dove quattro anni prima Elena ha esalato il suo ultimo respiro. Non ricorda che cosa è andata a fare in quel luogo. Alla sua destra la cattedrale è incombente, minacciosa e bellissima.
Stringe una fotografia. È confusa, non ricorda di averla scattata. La porta davanti agli occhi e la guarda: sporca, sbiadita e rovinata in più punti, ritrae se stessa ed Elena con gli occhi chiusi, ferme nell’attimo più intimo che la vita ha mai potuto regalare a quelle due giovani amanti.
Prova un brivido di freddo, per cui imbocca la strada di ritorno verso casa, accompagnata da una strana sensazione. Continua a stringere a sé la fotografia. Non sa perché lo sta facendo.
In casa, sua madre è in cucina ad aspettarla, carica di ramanzine. Suo padre sta ancora armeggiando con la pipa.
«Angelica! Dov’eri finita…?»
Quel donnone che Angelica ha per madre sembra vacillare davanti allo sguardo della figlia. È diverso, questa volta. Vede la ragazza avvicinarsi a lei e poggiare sul tavolo la fotografia che fino a quel momento ha avuto tra le mani.
La donna osserva e apre la bocca, come a voler dire qualcosa; ma non lo fa. Non è ancora pronta. Le sue labbra formano una circonferenza e poi sussultano. Sua figlia continua a osservarla e con estrema delicatezza una goccia si stacca dal suo mento. Intenta com’era a contenere la confusione generata in lei da quell’immagine, la donna non si è accorta che la sua bambina sta piangendo.
«Tu» riesce finalmente a dire la donna, e non c’è bisogno del mio intervento per farle pronunciare parole adeguate. «Per tutto questo tempo hai…»
Non fa in tempo a concludere la frase, perché finalmente, dopo quattro lunghi anni, Angelica si scioglie tra le braccia di sua madre. E qui mi fermo. Mi auguro con il mio cuore di diavolo che proseguendo nella lettura vi siate soffermati su quello che conta davvero. Perché miei cari, carissimi lettori, ogni argomentazione vacilla di fronte a una forza così dirompente. Essa riesce, qualsiasi sia la sua forma, a spezzare tutte le barriere. Ve lo dice il diavolo che tanto vi fa paura: non c’è alcun limite all’amore.




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