I
Angelica è una ragazza come tante.
Chi l’ha conosciuta sa bene che con lei non bisogna indossare alcuna maschera.
Non si offende per una battuta particolarmente pungente, né manifesta
comportamenti schizzinosi se per caso a qualcuno scappa qualche volgarità. È un
po’ un maschiaccio, in realtà, e di volgarità ne dice lei stessa, però poi ride,
vibrando note cristalline del suo apparato vocalico. Angelica è una ragazza
ribelle ed è impossibile descriverla usando parole diverse. Le piace cantare ed
è molto brava in questo. Canta soprattutto pop latino e rap. Quest’ultimo
l’appassiona particolarmente, così come ama leggere, scrivere (e cantare!) le
rime, che possono far parte di canzoni o anche di vere e proprie poesie. Le
piacciono le lettere, dunque, ma senza la prosa.
Ho detto che Angelica canta molto
bene, ed è vero, ma balla anche meglio! Se tu e lei siete abbastanza in
confidenza, basta tirare fuori uno smartphone, far partire un flamenco ed ecco
che ti porta con sé nel suo mondo fatto di onde e colori.
E a proposito di colori, se li
adora! Indossa ogni giorno una felpa o una maglietta di un colore differente.
Sfortunatamente, la sua felpa preferita è di una bruttissima sfumatura di rosa
pastello. Non dovrei giudicare, ma di tutti i bellissimi colori di cui si
veste, be’, quello è di certo il peggiore. Ciononostante, a lei piace, e io non
posso fare a meno di apprezzare la sua anima così variegata in un mondo che ha
un disperato bisogno di colore.
Anche i suoi capelli sono
colorati. Al momento li porta corti e arancioni. La sua testa somiglia a un
enorme mandarino. Sono consapevole che si tratta di una similitudine un po’
povera, ma è esattamente la prima cosa che mi viene in mente se la osservo. È
un mandarino.
I genitori di Angelica non sono
particolarmente contenti della loro bambina. Quando ha compiuto diciannove
anni, affermano, ha iniziato a manifestare comportamenti immaturi e poco
adeguati all’educazione che le è stata impartita. Adesso che ha ventitré anni,
i suoi genitori non sembrano volerle bene più come una volta.
«Non è più la nostra cara
bambina...» dice la mamma di Angelica, un donnone grande quanto un armadio e
più duro del cemento armato. «Quei suoi modi di fare, quelle sue amicizie…»
Suo marito riempie di tabacco la
pipa, mentre annuisce poco convinto a qualcosa che non ha neanche udito
distintamente. «Già, le amicizie».
«Quei ragazzi l’hanno allontanata
da noi, l’hanno allontanata dal Signore!».
Si trovano entrambi in cucina. Lei
sta asciugando convulsamente un piatto mentre parla. Dopo aver cenato, Angelica
è volata in camera sua. Ha litigato per l’ennesima volta con entrambi.
«Il Signore, sì» conviene l’uomo,
intento a spolverare con un dito il bordo della pipa.
La donna, invece, continua ad
asciugare lo stesso piatto, con sempre maggior disinvoltura. «Dobbiamo fare
qualcosa. Sono anni che prego che il Signore la faccia tornare quella di un
tempo. Dietro Suo consiglio, credo che la nostra piccola bambina abbia
intrapreso la strada sbagliata da quando, quattro anni fa, quella sua amica,
quella ragazza…»
«La strada sbagliata, sì» ripete
l’uomo.
La donna smette di asciugare il
piatto e lo poggia con composta violenza nel lavandino. «Ma Antonio! Mi stai
ascoltando o no?»
Colto alla sprovvista, Antonio si
rizza sulla sedia e annuisce con vigore. «Ma certo, certo che sì, cara!»
La donna gli manda un’occhiata di
fuoco, sbuffa e poi ritorna alle sue faccende.
Nel frattempo, Angelica, sdraiata
supina sul suo letto, ha udito soltanto l’ultimo richiamo all’attenzione di sua
madre nei confronti di suo padre. Sa che stanno parlando di lei. O meglio, sa
che sua madre si sta lamentando del suo atteggiamento nei confronti della Santa
Chiesa e di tutte quelle sciocchezze.
Ah! Per mio conto. Voglio scusarmi
se tu che stai leggendo credi in Dio o pratichi qualche tipo di religione. Non
è mia intenzione offendere il credo altrui; però, la mia opinione
personalissima è che anche se ritieni che la tua verità sia l’unica vera, ciò
non toglie che il tuo prossimo possa non pensarla esattamente come te.
Non dogmatizzate qualsiasi cosa!
E se ho usato (e userò, oh cielo
se lo farò) toni un po’ coloriti a riguardo, be’, non posso farci molto. È
questo che sono.
Ma ritorniamo alla nostra dolce,
meravigliosa e in questo momento un po’ malinconica fanciulla. Angelica sta
fissando il soffitto della sua camera, immaginando che sia un cielo stellato. Allunga
un braccio in direzione dello stesso nel tentativo di afferrare quante più
stelle possibile. Ogni singola stella è qualcosa che sua madre detesta e che
suo padre ignora. Tutti quegli astri, però, sono zone luminose sul suo volto,
all’interno della sua testa – la sua mente – e nel profondo del suo cuore –
l’amore con cui ha stretto un patto di eternità.
Si gira su un fianco e controlla
che ora è sull’orologio poggiato sul suo comodino: è un orribile marchingegno a
forma di unicorno che galoppa su di un arcobaleno brillantinato. È qualcosa di
sdolcinato da far salire il vomito, lei stessa la pensa quasi come me; però è
anche il ricordo più concreto di una persona a lei molto cara.
Sono le dieci di sera.
Si alza di scatto, s’infila un
giaccone e una sciarpa e varca la soglia della sua camera.
Mentre esce di casa s’infila le
cuffie nelle orecchie per evitare di sentire i rimproveri di sua madre. Una
volta fuori, inala a pieni polmoni l’aria gelida di dicembre.
Angelica vive in un comune
pugliese molto evocativo. Trani è una città che si trova qualche chilometro a
nord di Bari e la sua particolarità è quella di avere una splendida cattedrale
romanica affacciata sul mare.
Nonostante non creda in Dio, men
che meno in qualsiasi forma di religione, Angelica è diretta proprio verso la
cattedrale.
Deve percorrere alcune strade
appartate e poco illuminate, se non di quando in quando dalle decorazioni
natalizie di alcuni negozietti, prima di giungere in Piazza Duomo. La
cattedrale è di fronte a lei, con la facciata che, debolmente illuminata dalla
luna, sembra assumere un particolare colorito rosaceo.
Le piace quella piazza, ma non si
è diretta lì solo per godere di quella vista. Senza fermarsi continua a
muoversi. Poco più avanti c’è un basso muretto dove potersi sedere, poi gli
scogli che pendono direttamente sul mare. Lei supera con agilità il muretto e
si muove decisa saltando da uno scoglio all’altro. Raggiunge una piccola
insenatura nascosta da un sasso non particolarmente pesante ma neanche così
leggero da venire rimosso per sbaglio da qualche passante. Tira su quel sasso
ed estrae dall’insenatura una fotografia.
La fotografia, sporca, strappata e
scolorita in più punti, ritrae una ragazza, ferma nell’attimo del suo sorriso
più bello, come direbbe Angelica. Quella ragazza si chiama Elena. Nella
fotografia sembra poco più giovane di Angelica. Ha due occhi verdi che sembrano
concordare con un paio di orecchini ovali della stessa sfumatura. Ed è stata
proprio Angelica, quattro anni prima, a regalarglieli. Il naso è piccolo, un
po’ adunco, e le labbra sono due lune sottili. Tutto questo è avvolto dalla
cornice dei lunghi capelli castani, che scendono ben oltre le sue spalle ma si
fermano sulla fronte, con una frangia perfettamente geometrica. Lo sfondo è
composto dalle luci e dai colori sfumati di una discoteca.
Angelica sfiora con due dita
quella foto, mentre ripensa alla giornata (alla splendida, meravigliosa,
irripetibile giornata!) in cui quella foto è stata scattata.
A questo punto della storia
intervengo io. Perché, caro lettore, ho visto nel suo sguardo qualcosa che vedo
in molti pochi esseri umani, ma ho percepito nel suo rimorso una perdita
universalmente riconosciuta. Come sempre, quando appaio, faccio in modo che
nessuno, eccezion fatta di colui (o colei!) a cui voglio presentarmi, mi veda.
Quando appaio alle spalle di Angelica, in Piazza Duomo non c’è anima viva, a
parte noi due, ben inteso.
«Mia cara Angelica» esordisco.
Lei si volta di scatto nella mia
direzione perché (non posso biasimarla per questo!) non si è certamente accorta
che qualcuno le si è avvicinato. Appena mi vede reagisce come reagiscono tutti:
sgrana gli occhi e lancia uno strillo. Mentre lo fa indietreggia in un
meccanismo di difesa umano e istintivo, ma perde l’equilibrio e inciampa. Quando
prova a tenersi su, la fotografia di Elena le sfugge di mano e vola oltre gli
scogli, verso il mare.
Sospirando, schiocco le dita di
una mano e la foto, librando nell’aria, torna accanto alla sua proprietaria.
Angelica osserva la scena pietrificata e sembra non riuscire a muovere un
muscolo.
«Mia cara, dolce bambina» dico.
«Non aver paura di me».
Finalmente, forse udendo il tono
basso e rassicurante della mia voce, Angelica riesce a deglutire e a dare alito
alle sue parole. «Ma… tu sei… Sembri…»
Sorrido. Estendo il piede destro
dietro il sinistro, porto l’avambraccio destro sotto il petto e m’inchino,
allargando con eleganza il braccio sinistro. «Il diavolo, in persona». Rido nel
vedere l’espressione stampata sul suo volto. «Ma non è come credi. Non è come
dicono tutti».
«Ma hai le corna… la coda… Il tuo
corpo è...»
«Fuoco vivo, sì» convengo. «Ma,
come ti ho già anticipato, non è come dicono tutti». Sta riprendendo un po’ di
colore. «Tu, cara Angelica, sei molto più simile a me di quanto non credi. E
non c’entra niente ciò che dice tua madre. ‘Quella ragazza ha smarrito la
strada del Signore!’, ‘Quei ragazzi l’hanno allontanata da Dio!’, ‘Il diavolo
l’ha presa in simpatia’… Oh, forse quest’ultima affermazione è decisamente
vera».
Angelica ride. Sento che lei
stessa non ne comprende il motivo. «Ma perché sei qui?» domanda, una volta
ritornata seria. «Com’è possibile?» Afferra la fotografia di Elena. «Perché hai
fatto in modo che non cadesse in mare?»
Faccio un cenno con le mani, per
intimarle di calmarsi. «Non posso rispondere a così tante domande. In
particolare, la seconda è priva d’interesse. Risponderò alla prima: sono qui
perché ti ho preso in simpatia. E risponderò alla seconda: ho salvato la
fotografia perché, be’, è colpa mia se ti è sfuggita».
«Ma...»
«Basta, mia cara, con le domande.
Volevo dirti una cosa che ho notato. Quella fotografia – la ragazza ritratta in
quella fotografia – provoca in te un rimpianto che solo l’amore che provi per
quella persona può colmare».
«Sei davvero il diavolo?» domanda,
arrossendo.
Sorrido per la sua ingenuità. «Chi
mi ha dipinto in una certa maniera l’ha fatto perché crede che io sia la faccia
scura della luna, l’ombra che copre la luce. Invece, io sono semplicemente quel
po’ di anarchia che il mondo necessità. Non sono nero, come contrapposto al
bianco. Io sono proprio come te, tanti colori».
«Tanti colori...» mi fa eco lei.
Si tira in piedi, sempre stringendo la fotografia. «Hai ragione. Elena… Un
rimpianto mi lega a questa fotografia. È colpa di mia mamma! Anche un po’ mia,
sì… Però se non fosse stato per lei, per quel suo modo di pensare così bigotto…
Ecco, avrei…»
«Avresti dichiarato i tuoi
sentimenti a quella ragazza, ma ormai non puoi più farlo perché…»
«Perché Elena è morta» afferma.
«Proprio qui, circa quattro anni fa. Il giorno in cui le regalai quegli
orecchini che le piacquero così tanto, il giorno del suo diciannovesimo
compleanno, il giorno in cui le ho scattato questa foto, questa meravigliosa,
insostituibile fotografia…»
Non piange. Sembra non avere più
lacrime da versare, da troppo tempo.
Annuisco, comprensivo. «Lo sai,
cara Angelica, cara bambina… è così facile…»
Schiocco le dita e per adesso mi
faccio da parte. Schiocco ancora una volta le dita, questa volta con entrambe
le mani, e la musica irrompe nell’aria. Le luci nella discoteca sono come
fuochi d’artificio nella notte quando in città tutti i lampioni sono spenti. I
ragazzi e le ragazze sembrano ballare e strillare come se si muovessero in uno
spazio discreto anziché continuo.
Angelica ride e sogna e canta e
balla. I suoi capelli sono corti ma ancora del loro colore castano naturale.
Accanto a lei, Elena si muove in
quell’ambiente con una leggera, ma accattivante goffaggine. I suoi orecchini verdi
ruotano come eliche. Le due ragazze, schiena contro schiena si sfiorano e
ballano. E cantano. E urlano a squarciagola.
È il giorno del diciannovesimo
compleanno di Elena.
II
La musica è martellante, ma a loro
piace così. Si scatenano come non hanno mai fatto prima. Insieme a decine di altre
persone, si muovono in quella stanza, ma ai loro occhi è proprio la stanza a
muoversi, a vibrare: con le sue pareti distanti, con il soffitto alto come
l’apoteosi di tutte le altitudini e con l’oscurità accesa di luci e di colori
accecanti ma bellissimi, l’intera realtà è circoscritta in quella discoteca e
quella discoteca è l’unica realtà che conta per quelle due ragazze che non
hanno la minima idea di cosa il futuro le riserverà. Quel che importa davvero è
ballare e vivere quel che si può vedere, e Angelica ha sempre pensato che
ballare è vivere ciò che si può vedere (e solo quello, niente di più!).
Un brano si arresta all’improvviso
per poi venire seguito subito dal successivo, che è una nuova martellata di
energia. Un’accozzaglia di tecno e dance che ad Angelica sembra il più
suggestivo dei ritmi tribali; poi, come d’incanto, l’oscurità della discoteca
sembra sciogliersi in colori più tendenti al pastello. Si ferma e vede intorno
a sé l’oceano di persona che continua a ondeggiare. Elena è un tutt’uno con
loro, proprio come lo è stata anche lei fino a qualche istante fa. Elena danza
con gli occhi chiusi, come in un’estasi di beatitudine.
Ridacchiando, Angelica tira fuori
da una tasca il suo smartphone e lo mette in modalità fotocamera.
«Elena!» la chiama, ma il fragore
è troppo forte. «Elena!» ripete.
La ragazza alza lentamente le
palpebre, mostrando al mondo le sue lune verdi incastonate all’altezza degli
occhi. Ride mentre l’amica le scatta all’improvviso una fotografia.
«Per immortalare questo momento»
dice Angelica con il labiale. Elena la spinge via divertita e riprende a
ballare.
Angelica osserva quella ragazza. È
decisamente brilla e non pienamente cosciente di se stessa; però, nonostante
tutto, ritiene che sia giunto il momento di portarla in quel luogo speciale
che, caro lettore, temo tu abbia già intuito quale sia.
«Elena!» la chiama nuovamente. Si
avvicina a lei e le afferra una mano. «Vieni!»
Non oppone resistenza e Angelica
la trascina con sé fuori dalla discoteca. Respirano l’aria gelida di dicembre e
ben presto raggiungono Piazza Duomo.
*
«Ma io non riesco a capire...» mi
sta dicendo Angelica. «Non capisco perché mi stai facendo vedere tutto questo».
Vedo che stringe con entrambe le
mani la fotografia di Elena e nei suoi occhi scorgo una nostalgia che mi
addolora. «Non ti sto mostrando niente, cara bambina. Tu stai vivendo la notte
del tuo rimpianto» le dico.
Dilatando le palpebre, forse cieca
di una strana consapevolezza, mi domanda: «Mi stai dicendo che è possibile
cambiare qualcosa che è già successo?»
«No» scuoto la testa con tutta la
dolcezza possibile. «Sarebbe una catastrofe».
«E allora per quale ragione vuoi
che io veda questo inferno?» strilla, senza più riuscire a trattenersi.
Il mio tono si fa più duro e lei
sembra intimorirsi. «Non pensavo tu fossi così vigliacca, cara bambina, cara
Angelica. Tu stai vivendo la notte del tuo rimpianto perché solo in questo modo
potrai riviverla ancora, senza alcun rimpianto».
«No...» dice in un sussurro,
capendo che sto per schioccare le dita delle mie mani. «Non voglio...» È
sveglia, Angelica. Ha capito che qualcosa sta per succedere. La spaventa, ed è
bene che sia così. Dopotutto è umana.
«Sarà doloroso, ma gratificante»
dico.
*
Angelica salta con agilità il
muretto e poi aiuta Elena a fare la stessa cosa. Sta ridendo e Angelica adora
quando lo fa. Iniziano a saltellare da uno scoglio all’altro, immaginando di
trovarsi in una grande discoteca che si affaccia direttamente sul mare; finché
Elena non ha un giramento di testa che la fa barcollare.
«Ehi, stai bene?» le domanda
Angelica.
L’altra inspira a fondo e poi
espira. «Mi viene da vomitare. Non avrei dovuto bere così tanto».
«Mi dispiace» si scusa Angelica.
«Forse portarti qui non è stata una buona idea…»
Elena sorride. «No, no… Ora mi
siedo un attimo».
Si siedono l’una accanto
all’altra, in uno scoglio che dà direttamente sul mare. Sono parecchio in alto.
«Sai, Angelica, mi piacerebbe
tuffarmi» dice Elena dopo un po’.
«Ti senti un po’ meglio?» domanda
l’altra, a sua volta.
«Diciamo».
Angelica sospira. «In che senso ti
piacerebbe tuffarti?»
Elena inspira ed espira. «In
acqua» risponde. «Con te».
Ha gli occhi chiusi. Angelica
pensa che forse è per via dei giramenti di testa e non dice niente; però
vorrebbe entrare nella sua mente e sapere cosa sta pensando.
Elena sta facendo ondeggiare piano
la testa, quasi impercettibilmente, quasi a ritmo di una musica inudibile.
Questo momento, Angelica l’ha
atteso, immaginato e vissuto parecchie volte, ma non si sente ancora pronta. È
intenzionata ad avvicinare il proprio volto a quello di Elena, a condividere
con lei le stelle del cielo che avrebbe raccolto dal soffitto della sua stanza,
quattro anni dopo.
Invece la figura di sua madre
risalta ingombrante dentro di sé. Una volta, ha sentito che discuteva con suo
padre di un caso di omosessualità utilizzando toni che l’hanno fatta
sprofondare nello sconforto.
Che cosa avrebbe detto di lei?
Che cosa avrebbe pensato di lei?
In quale modo l’avrebbe giudicata?
In che modo l’avrebbe derisa?
Che cosa avrebbe diffuso?
Chi sarebbe stata per lei?
Elena riapre gli occhi e li
rivolge nella direzione di Angelica. «Balliamo!» Ride e le afferra un braccio,
tirandola su con sé. Mentre lei salta e balla (o qualcosa di simile!) tra uno
scoglio e l’altro, Angelica rimane immobile a osservarla.
È ancora ferma quando Elena si
china in avanti perché evidentemente non si sente ancora bene. Si ritrova
pietrificata quando, invece, un giramento di testa forse più forte dei
precedenti le fa perdere l’equilibrio.
Elena non vede più nulla. Angelica
sente il suo grido interrotto da uno schianto violento che le provoca un
brivido gelido lungo la spina dorsale. L’ultimo rumore che sente, prima di
pronunciare debolmente il nome di Elena, è quello del mare mentre richiama a sé
quel corpo che le è appena stato precluso per sempre.
«No» prova a dire, senza però
emettere alcun fiato. «No» ripete, e questa volta riesce ad articolare un suono
percettibile. «No!» urla, e adesso i due suoni sono chiaramente distinguibili:
n-o. La loro somma contiene la negazione di una realtà terribile, una realtà
che s’impone come l’acqua che s’infrange sugli scogli, erodendo e scavando un
rimpianto.
Forse riesce in qualche modo a
sentirmi mentre faccio schioccare le dita di entrambe le mie mani, perché
sbatte le palpebre più e più volte, come se si trovasse in uno stato
d’improvvisa e inspiegabile confusione.
«No» dice, quasi proseguendo un
evento che non si è ancora verificato.
Elena le rivolge un’occhiata
stupita. «Come?»
«No» ripete Angelica, con più
convinzione. «Ho detto no, voglio che tu lo apra adesso, non dopo».
Si trovano nella stanza di
Angelica ed Elena sta stringendo un pacchetto piccolo con su scritto ‘Auguri
Elena’ e con un fiocco rosso a decorarne il lato superiore.
Angelica sorride. Si trovano nella
sua stanza, in casa sua. I suoi genitori sono in cucina a discutere di qualche
sciocchezza. «Dai, aprilo!»
È il giorno del diciannovesimo
compleanno di Elena.
III
«Non farti pregare, dai, aprilo!»
insiste Angelica.
Elena finge un’espressione
imbronciata. «D’accordo». Scarta il suo regalo con curiosità. Scopre una
piccola scatoletta scura che contiene due orecchini verdi.
L’espressione di Elena completa la
festiva soddisfazione apparsa sul volto di Angelica. «Lo sapevo, lo sapevo!»
L’altra stringe con entrambe le
mani quegli oggetti così piccoli e speciali. «Voglio indossarli».
«Adesso?»
«Adesso!»
Elena manifesta l’intenzione di
alzarsi e di spostarsi verso lo specchio, ma Angelica la ferma: «No! Guarderai
la tua immagine solo dopo averli indossati». Glieli sfila dalle mani e, mio
caro lettore, prova a immaginare, prova a riempire tutti i buchi. Prova a
disegnare la gioia negli occhi di entrambe, quando Elena finalmente si
specchia. Dopo aver contemplato quell’immagine, Angelica sfiora con il proprio
sguardo l’orrendo orologio a forma di unicorno sul suo comodino. Ricorda che
anche lei, tanti anni prima, ha avuto quello sguardo. Poi gli occhi dell’una e
dell’altra s’incrociano. Sanno che si divertiranno. E lo faranno. L’uscita con
gli amici e la cena, la trasgressione in discoteca e, infine, l’una che afferra
la mano dell’altra nella notte di un dicembre particolarmente freddo. Su quegli
scogli che danno sul mare, dietro di loro la splendida cattedrale dalle tinte
impercettibilmente rosate è il simbolo di un rimorso.
Questo è il momento in cui Elena è
persa in un’estasi di beatitudine, nonostante il malessere fisico. È il momento
in cui Angelica sta per avvicinare il proprio volto a quello di Elena ma è
improvvisamente bloccata dagli invisibili imperativi di una madre che non l’ha
mai compresa fino in fondo. E, dopotutto, lei stessa non ha provato a farsi
capire. Perché ha sempre covato dentro di sé il timore di ricevere una risposta
a tutte quelle domande che ragionando anche solo poco sull’umanità e sull’amore
appaiono prive di argomenti.
Che cosa avrebbe detto di lei?
Che cosa avrebbe pensato di lei?
In quale modo…
Non ho schioccato le dita delle
mie mani. Angelica sembra vivere un istantaneo stato di confusione. Sente quasi
di aver già vissuto quel momento, in qualche modo. Elena sta per riaprire gli
occhi ma prima che questo avvenga, Angelica esclama: «Al diavolo!» (e io faccio
di tutto per non sentirmi offeso!).
Le labbra delle due ragazze si
toccano e qualcuno scatta una fotografia, ma a loro non sembra interessare; poi
Elena e Angelica riprendono a ballare e lo fanno fino alla fine.
*
Angelica riapre gli occhi. Si
trova sugli scogli dietro Piazza Duomo, da sola. Alla sua sinistra c’è il mare,
lì dove quattro anni prima Elena ha esalato il suo ultimo respiro. Non ricorda
che cosa è andata a fare in quel luogo. Alla sua destra la cattedrale è
incombente, minacciosa e bellissima.
Stringe una fotografia. È confusa,
non ricorda di averla scattata. La porta davanti agli occhi e la guarda: sporca,
sbiadita e rovinata in più punti, ritrae se stessa ed Elena con gli occhi
chiusi, ferme nell’attimo più intimo che la vita ha mai potuto regalare a
quelle due giovani amanti.
Prova un brivido di freddo, per
cui imbocca la strada di ritorno verso casa, accompagnata da una strana
sensazione. Continua a stringere a sé la fotografia. Non sa perché lo sta
facendo.
In casa, sua madre è in cucina ad
aspettarla, carica di ramanzine. Suo padre sta ancora armeggiando con la pipa.
«Angelica! Dov’eri finita…?»
Quel donnone che Angelica ha per
madre sembra vacillare davanti allo sguardo della figlia. È diverso, questa
volta. Vede la ragazza avvicinarsi a lei e poggiare sul tavolo la fotografia
che fino a quel momento ha avuto tra le mani.
La donna osserva e apre la bocca,
come a voler dire qualcosa; ma non lo fa. Non è ancora pronta. Le sue labbra
formano una circonferenza e poi sussultano. Sua figlia continua a osservarla e
con estrema delicatezza una goccia si stacca dal suo mento. Intenta com’era a
contenere la confusione generata in lei da quell’immagine, la donna non si è
accorta che la sua bambina sta piangendo.
«Tu» riesce finalmente a dire la
donna, e non c’è bisogno del mio intervento per farle pronunciare parole
adeguate. «Per tutto questo tempo hai…»
Non fa in tempo a concludere la
frase, perché finalmente, dopo quattro lunghi anni, Angelica si scioglie tra le
braccia di sua madre. E qui mi fermo. Mi auguro con il mio cuore di diavolo che
proseguendo nella lettura vi siate soffermati su quello che conta davvero.
Perché miei cari, carissimi lettori, ogni argomentazione vacilla di fronte a
una forza così dirompente. Essa riesce, qualsiasi sia la sua forma, a spezzare
tutte le barriere. Ve lo dice il diavolo che tanto vi fa paura: non c’è alcun
limite all’amore.
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